Africa, il futuro di un continente

foto D.Reviati

Articolo intervista a Felwine Sarr, pubblicato sul sito “Lo Straniero” l’08/12/2016 | Dicembre 2016-Febbraio 2017 n. 198/199/200 
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(incontro con Livia Apa) Il 31 ottobre si sono conclusi, a Saint-Louis in Senegal, gli Ateliers de la pensée, un’iniziativa fortemente voluta e organizzata da Achille Mbembe e Felwine Sarr. Di Mbembe i lettori di “Lo straniero” hanno potuto leggere un importante saggio nel numero 196 dello scorso ottobre; Felwine Sarr abbiamo avuto la fortuna di intervistarlo tre settimane fa a Roma. All’incontro svoltosi tra Dakar e Saint-Louis, che ha segnato un momento importante nel dibattito culturale e politico africano, hanno preso parte le voci più importanti dell’Africa francofona. Tra loro, Mamadou Diouf, Souleyman Bachir Diagne, Nadia Yala Kisukidi, Françoise Vergés, Alain Makoumbou e Leonora Miano. Esso ha avuto l’ambizioso obiettivo di creare le basi di una comunità intellettuale capace di riflettere sul continente e sul mondo, scegliendo come luogo di enunciazione l’Africa, cercando di superare la crisi di rappresentazione che la riguarda e la difficoltà di parlarne fuori ogni stereotipo.

Felwine, sei arrivato al grande pubblico con il tuo recente Afrotopia, un volume in cui tracci le linee maestre del tuo progetto di rilancio del continente africano. Insegni economia all’Università Gaston Berger di Saint-Louis in Senegal, ma il libro non mi pare sia solo un programma economico…
Sì, in Afrotopia io propongo una riflessione sullo sviluppo socio-economico del continente, diciamo che parto da qui visto che insegno economia dello sviluppo. In realtà nel mio libro cerco di dare un inquadramento teorico di quanto osservo del continente africano. Scrivo anche letteratura, ma si tratta di un altro punto di vista che ha a che vedere piuttosto con la costruzione di un immaginario africano che superi la rappresentazione del continente che spesso ci viene imposta. Il mio punto di vista in Afrotopia è quindi disciplinare e parte dall’economia, ma si accompagna anche alle discipline umanistiche e alle arti in generale. Se osserviamo bene la produzione culturale sul continente, l’Africa vi è stata raramente soggetto limitandosi a essere un mero oggetto di rappresentazioni. Purtroppo l’esperienza del colonialismo ha prodotto discorsi sempre dispregiativi sul mio continente, consolidando un’idea secondo la quale noi africani abbiamo ancora bisogno di un certo illuminismo. Questo tipo di violenza epistemica ha finito per convincerci della nostra inferiorità e della inadeguatezza della nostra storia. Quando negli anni sessanta si è ottenuta l’indipendenza nella maggior parte dell’Africa, abbiamo avuto la possibilità di riprendere in mano il nostro destino, ma se abbiamo ritrovato la sovranità politica essa non si è saputa esprimere a livello sociale, innanzitutto perché il modello di sviluppo a cui ci si è ispirati era ed è completamente estraneo alla nostra società. è chiaro che le necessità sono universali, ma le soluzioni di certi bisogni esigono soluzioni specifiche. Le società cosiddette post-coloniali hanno vissuto una storia che non gli apparteneva e in cui, nella maggior parte dei casi, sono state applicate delle soluzioni prêt-à-porter, in definitiva dei modelli che poco avevano e hanno a che fare con noi e con la nostra storia. E questo modello è così forte che è difficile anche metterlo soltanto in discussione, interrogarlo. Ogni società dovrebbe poter creare un modello di società che corrisponde alla propria storia e alla propria socio-cultura. Si dovrebbe ritornare all’etimologia della parola sviluppo, che contiene l’idea del passaggio da una condizione a un’altra di maggiore crescita. Si tratta però di un vestito già confezionato che non mi sembra “svolgere” ma avvolgere, avviluppare la stessa idea di sviluppo. La storia è ovviamente fatta di mescolanze, di prestiti, ed è quindi necessario articolare un progetto di società a cui tutte le parti possano partecipare; una società si deve chiedere sempre: “qual è il progetto di vita insieme che vogliamo costruire?” La domanda su cosa è lo sviluppo deve quindi, secondo me, essere pensata in un modo nuovo, e cioè: “qual è la vita migliore che ci possiamo dare in determinato spazio?” E questo è un tema culturale. L’economia mette l’accento sui mezzi, sugli indicatori economici. Quando si parla dell’Africa, per esempio, si parla sempre dell’inefficienza ma anche dell’umanità, dell’intensità dei rapporti umani. Dunque, in questo quadro, forse non bisognerebbe partire dagli indicatori economici ma da quell’altra parte della nostra vita che pure esiste, e io sono sicuro che c’è una grande ricchezza fuori da questi parametri. Io propongo di riprendere la metafora del nostro futuro, e difendo l’idea che il futuro sia ancora tutto da scrivere. E mi sembra un progetto più complesso di quello di diventare semplicemente “un paese sviluppato”. È importante vedere ciò che è reale e che ciò che vediamo non è quello che ci viene imposto. Fanon, per esempio, si proponeva per l’Africa un progetto di reinvenzione dell’umanità. Bisogna quindi allontanarsi dall’eterna idea della “sfida economica”. Nel mio libro prendo le distanze dall’idea dell’Africa dettata dal sistema economico. Parlo di un continente in progress che annuncia qualcosa di nuovo, la questione è quindi per me che tipo di società e di umanità vogliamo articolare quando i problemi economici potranno essere risolti. Credo che dobbiamo recuperare la nostra storia e ripensare alla nostra condizione umana non in piattezza ma in rilievo. Quella che viviamo, tutti, in Africa e fuori è una crisi di senso e credo che anche noi possiamo dire qualcosa a riguardo. L’idea è come mettere in dialogo economia e cultura. Rivendico quindi la necessità di pensare. Viviamo nell’eterna tensione dell’azione e invece abbiamo bisogno di tempo per pensare. Dobbiamo chiederci perché i modelli che ci sono stati proposti non hanno funzionato. è necessario pensare, per poter capire quali sono le categorie che possono guidare la nostra azione. Anche alla base di chi comanda il mondo ci sono i think thank, alla base c’è comunque il pensiero! Ci troviamo di fronte a una duplice questione oggi: non abbiamo una riflessione sufficiente sulle dinamiche sociali e abbiamo inoltre bisogno di una classe politica che sia capace di metterle in atto. L’organizzazione sociale e le forme sociali sono un’emanazione della società e questa è la schizofrenia societaria in cui viviamo: la realtà supera le forme istituzionali. Esistono forme di organizzazione alternativa, che possono essere innestate, trapiantate nelle pratiche dei nostri paesi. Penso al caso del Ruanda dove si sperimentano forme di economia legate a sistemi tradizionali di gestione delle risorse.

Ci sono esempi a cui sarebbe possibile rifarsi?
Molti guardano come possibile esempio alla Cina. Certo, in Cina 650 milioni di persone sono emerse dalla povertà materiale assoluta. Ma per fare questo il paese ha scelto la via dell’autarchia e i cinesi hanno avuto il tempo per vedere i cambiamenti economici dare i loro frutti. Noi però non abbiamo bisogno di autarchia, ma piuttosto di avere il tempo di pensare e forgiare il nostro futuro. In realtà nel continente qualcosa si muove. In Burkina Faso qualcosa è successo, Blaise Compaorè è stato deposto, prima o poi anche il Congo e altri paesi che vivono situazioni di ristagno politico si indirizzeranno verso un cambiamento, credo che la società civile avrà il potere di cambiare il corso delle cose. La cosa importante è non dimenticare di dare alla società uno specchio, per questo il lavoro sulla rappresentazione è importante, avrà vinto la guerra chi saprà vincere questa battaglia. Noi abbiamo creduto per troppo tempo che decolonizzare fosse un termine temporale che sarebbe automaticamente coinciso con un cambiamento culturale, mentre invece la decolonizzazione è stata ed è un percorso ben più complesso.…La libertà la si conquista tappa per tappa, strada per strada, in un processo costante. Un esempio: in Africa Occidentale noi usiamo ancora il franco Cfa. Le nostre riserve sono minime se le paragoniamo al Pil francese, ma se lo rapportiamo al nostro Pil parliamo di una cifra significativa. Ma noi non ci prendiamo la libertà di svincolare la nostra moneta dalla Francia, e chi governa approfitta della nostra noncuranza per non farlo.

E il rapporto con l’Occidente?
Non credo che tutto il male venga dall’Occidente, ma la tratta degli schiavi e la colonizzazione sono due fatti. I nostri paesi negli ultimi cinque secoli hanno subito uno choc storico rispetto al quale hanno dimostrato una grande capacità di resilienza. L’indipendenza politica non è riuscita a fare molto. Non è vero che le nostre economie si reggono per la metà sul contributo esterno, dipende dai paesi. Come dicevo il Ruanda sta provando a creare un fondo sovrano che aspira a far scendere la partecipazione esterna al di sotto del 25%. Le rimesse dei migranti sono più importanti delle donazioni. L’Africa al netto è creditore delle multinazionali e non il contrario. Il problema è come investire le nostre risorse, che non vengono ridistribuite dai governi.

Assieme ad Achille Mbembe hai organizzato in Senegal “Les Ateliers de la pensée”. Di che cosa si tratta?
L’idea è partita a luglio dalla possibilità di fare a Dakar una doppia lettura di Afrotopia e Politique de l’inimitié, l’ultimo libro di Achille Mbembe. Poi abbiamo pensato di allargare la cosa a vari intellettuali africani francofoni, a persone che contribuiscono a una riflessione sul pensiero africano e sulla letteratura, e abbiamo invitato molti scrittori perché la letteratura produce pensiero. Alcuni appartengono alla diaspora, ma anche in Africa c’è una nuova generazione che produce cose molto interessanti. Penso a Leonora Miano o Alain Makoumbou. In sostanza ci è sembrata interessante l’idea di ricreare una comunità intellettuale, un po’ come era stato nei due congressi di intellettuali neri a Parigi e a Roma negli anni cinquanta. La nostra proposta è di riflettere sulle sfide che il mondo attuale ci lancia non solo in Africa ma nel mondo. Una parte dei lavori saranno dei seminari chiusi, ma ci sarà sempre un largo spazio aperto successivamente al pubblico, la nostra idea è di far nascere qualcosa che possa affrontare un lavoro più ampio e che abbia una regolare scadenza annuale. È chiaro che c’è un dialogo implicito con alcuni pensatori del passato, innanzitutto Fanon, che secondo Achille ha pensato il mondo contemporaneo. Lui aveva ragionato sulla ferita coloniale, era uno psichiatra, questo è noto, ma aveva pensato anche la necessità della cura in una situazione come quella della guerra d’Algeria. Noi ci basiamo su tutta quest’importante eredità, e quello che è importante in questa eredità è capire cosa c’è ancora di utile e di dinamico per pensare il nostro tempo. Fanon, Cheik Anta Diop e altri pensatori hanno svolto un’attività di riflessione sulla nostra realtà, individuato dinamiche che in parte persistono; e noi abbiamo bisogno di questi archivi per pensare il mondo così come è. Per me archivio è innanzi tutto risorsa. Noi ci aspettiamo attraverso questa iniziativa una riflessione sulle questioni che ci riguardano, l’educazione, la città, l’organizzazione sociale. Per noi è importante che gli Ateliers siano un appuntamento regolare. Sono le idee a governare il mondo, come ho già detto, ma un altro elemento importante è il luogo: pensare l’Africa partendo dall’Africa ma per guardare il mondo, non solo noi stessi. L’ecologia per esempio, o le migrazioni, tutte le grandi questioni…

Tra gli invitati ci sono molti esponenti della diaspora, per esempio Françoise Vergèr, come immaginate questa sinergia?
La nostra è un’idea di Africa deterritorializzata. Tutti coloro che hanno un engagement con il continente, intellettuale, spirituale, possono dare il loro contributo. Noi vogliamo derazzializzare il dibattito, e questa oggi è una scelta coraggiosa. Negli anni cinquanta la questione era necessariamente una questione di razza, di identità e di territorio, ma ora è necessario spingersi più avanti.

Sulla stampa alcuni vi hanno criticato perché siete tutti francofoni…
è vero, ma la nostra non è una chiusura, per ora siamo questi, volenti o no siamo una comunità segnata da una lingua comune, ma è chiaro che la barriera tra le lingue imposte dal colonialismo va superata. Il nostro è solo un inizio.

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