di ACHILLE MBEMBE
[Non ci interessano le celebrazioni ufficiali o le agiografie di Nelson Mandela. Ci interessa invece socializzare la conoscenza di un militante rivoluzionario, dei movimenti anti-coloniali e contro l’apartheid a cui è stato interno e di cui è stato protagonista, così come delle contraddizioni del governo dell’African National Congress, che ha spesso istituzionalizzato la memoria per neutralizzarla e reprimere le lotte contro il regime neoliberale. Ci interessa analizzare la grandezza delle lotte anti-coloniali e il fallimento degli stati postcoloniali. Il contributo di Achille Mbembe che qui presentiamo (scritto in estate) va in questa direzione, dentro le lotte del presente e per le lotte nel presente. Ecco il nostro tributo a Madiba, nell’unico modo degno: da rivoluzionari.]
Con l’uscita di scena di Nelson Mandela, si avrà diritto di decretare la fine del XX secolo. L’uomo che oggi è al tramonto della sua vita ne è stata una delle figure emblematiche. E, con l’eccezione di Fidel Castro, è forse l’ultimo di una serie di grandi uomini condannati all’estinzione, vista l’urgenza del nostro tempo di farla finita una volta per tutte con i miti.
Più che un santo, appellativo che egli stesso non gradisce, Mandela è stato davvero una leggenda vivente, prima, durante e dopo la lunga carcerazione. In lui, il Sudafrica, questo incidente geografico che ha difficoltà a farsi concetto, ha trovato la sua Idea. E se non ha fretta di sbarazzarsene è proprio perché il mito della società senza miti non è privo di pericoli, alla luce della sua nuova esistenza quale comunità di vita, all’indomani dell’apartheid.
Ma se davvero accordiamo a Mandela il rifiuto della santità che lui stesso, a volte non senza malizia, non ha mai smesso di ribadire, si deve anche riconoscere che non si tratta di un uomo comune. L’apartheid, quale forma quasi ordinaria di dominazione coloniale e oppressione razziale, ha prodotto l’emergere di una classe di donne e uomini fuori dal comune, senza timore, che, al prezzo di sacrifici incredibili, ne hanno affrettato l’abolizione. Se tra tutti questi Mandela è il simbolo, è perché ad ogni bivio della sua vita è stato in grado, a volte sotto la pressione delle circostanze e spesso volontariamente, di intraprendere cammini inattesi.
In sostanza, la sua vita si può riassumere con poche parole: uomo costantemente in agguato, vigile al momento della partenza, e i cui ritorni, inattesi quanto miracolosi, hanno non poco contribuito alla sua mitizzazione.
Alla base del mito non c’è solo il desiderio del sacro e la smania del mistero. Il mito fiorisce in primo luogo vicino alla morte, questa forma primaria della dipartita e della rimozione. Mandela ne ha fatto esperienza presto, quando suo padre, Mphakanyiswa Gadla Mandela, è morto quasi davanti ai suoi occhi, con la pipa in bocca, nel mezzo di un colpo di tosse inarrestabile che neanche il tabacco, di cui era così appassionato, ha potuto addolcire. Fu a quel punto che la prima dipartita ne anticipò un’altra. Accompagnato dalla madre, il giovane Mandela lasciò Qunu, il luogo della sua infanzia e della prima adolescenza, che descrive con infinita tenerezza nella sua autobiografia; il luogo dove si stabilirà dopo i lunghi anni di carcere, dopo aver costruito una casa che replicava in tutto e per tutto l’ultima prigione prima della sua liberazione.
Riluttante a conformarsi alle usanze, partirà una seconda volta alla fine dell’adolescenza. Principe fuggitivo, girerà le spalle a una carriera al fianco del capo dei Thembus, suo clan d’origine. Andrà a Johannesburg, città mineraria che vedeva in quegli anni l’espandersi delle contraddizioni sociali, culturali e politiche generate da quell’assemblaggio barocco di capitalismo e razzismo che dal 1948 prende il nome di apartheid. Destinato a diventare un leader di fatto, Mandela si converte al nazionalismo come altri si sarebbero convertiti a una religione, e la città delle miniere d’oro diventò il teatro principale del suo incontro con il destino.
Inizia a quel punto una strada lunga e dolorosa da attraversare, di privazione, arresti ripetuti, molestie, continue convocazioni in tribunale, sistematiche incarcerazioni con tutto un corollario di torture e riti di umiliazione, momenti più o meno prolungati di vita clandestina, l’inversione del giorno con la notte, i travestimenti più o meno spontanei, una vita familiare dislocata, fatta di abitazioni deserte – l’uomo in lotta, braccato, il fuggitivo costantemente in partenza, guidato ormai solo dalla la convinzione che il giorno seguente sarà quello del ritorno.
Mandela ha infatti corso rischi enormi. Rischi per la sua stessa vita, vissuta intensamente, come se tutto doveva ogni volta ricominciare e come se ogni volta fosse l’ultima. Ma anche per quella di molti altri, a cominciare dalla sua famiglia, che come conseguenza inevitabile ha pagato un costo inestimabile per il suo impegno e per le sue convinzioni. E ciò lo ha legato alla sua famiglia con un debito inestinguibile, che, come ha sempre saputo, non sarebbe mai stato in grado di ripagare – cosa che non ha fatto che accrescere il suo senso di colpa.
Nel 1964 ha evitato la pena di morte. Con i suoi coimputati, era pronto ad essere condannato. “Avevamo previsto questa possibilità” ha detto in un’intervista con Ahmed Kathrada, molto tempo dopo essere uscito di prigione. “Se dovevamo scomparire, dovevamo farlo in una nuvola di gloria. Ci piaceva sapere che la nostra uccisione rappresentava il nostro ultimo dono al nostro popolo e alla nostra organizzazione”[1]. Questa visione eucaristica, tuttavia, era priva di qualsiasi desiderio di martirio. E a differenza di tutti gli altri, da Ruben Um Nyobe a Patrice Lumumba, passando per Amilcar Cabral, Martin Luther King o Mohandas Karamchand Gandhi, sfuggirà alla falce della morte.
Nel carcere Robben Island sperimenterà propriamente il desiderio di vita, al limite del lavoro forzato, della morte e dell’esilio. Il carcere diventerà luogo di una prova estrema, quella del confinamento e del ritorno dell’uomo alla sua espressione più semplice. In questo luogo di massima privazione, Mandela ha imparato a vivere nella cella dove ha trascorso oltre vent’anni come un vivo costretto a sposarsi con un feretro[2].
Nelle lunghe e strazianti ore di solitudine, spinto al limite della follia, riscopre l’essenziale che si trova nel silenzio e nel dettaglio. Tutto gli parla di nuovo: una formica che si affretta non si sa dove; un seme sepolto che morto poi si rialza, dando l’illusione di un giardino; un pezzo di qualcosa, qualsiasi; il silenzio dei giorni tristi che si somigliano senza dare l’impressione di passare; il tempo che si allunga interminabilmente; la lentezza dei giorni e il freddo delle notti; la parola diventata così rara; il mondo fuori dalle mura di cui non si sentono più i mormorii; l’abisso che era Robben Island e le tracce del penitenziario sul suo volto ormai scolpito dal dolore, nei suoi occhi sbiaditi dalla luce solare riflessa sul quarzo, in queste lacrime che non sono tali, la polvere sul suo volto trasformato in fantasma spettrale, nei suoi polmoni e sulla punta dei piedi, e soprattutto questo sorriso allegro e luminoso, questa postura altera, dritta, in piedi, il pugno stretto, pronto ad abbracciare di nuovo il mondo e a fare soffiare la tempesta.
Spogliato di quasi tutto, combatterà con le unghie e con i denti per non far sì che, di fronte al resto dell’umanità, i suoi rapitori che volevano a tutti i costi sbarazzarsi di lui, ne potessero fare il trofeo finale. Ridotto a vivere con quasi nulla, ha imparato a salvare tutto, ma ha anche coltivato un profondo distacco dalle cose della vita secolare, compresi i piaceri della sessualità. Al punto che, di fatto prigioniero, confinato in due metri e mezzo, non è tuttavia schiavo di nessuno.
L’uomo di carne e ossa, Mandela ha dunque vissuto in prossimità del disastro. È entrato nella notte della vita, vicino alle tenebre, in cerca di un’idea: vivere liberi dalla razza e dalla dominazione razziale. Le sue scelte l’hanno portato sull’orlo del precipizio. Ha affascinato il mondo, perché è tornato vivo dalla terra dell’ombra, forza che sgorga la sera di un secolo invecchiato e che non si può più sognare.
Proprio come i movimenti operai del XIX secolo o come le lotte delle donne, la nostra modernità è stata travagliata dal sogno di abolire della schiavitù. Sogno che, nei primi anni del XX secolo, si è esteso alla lotta per la decolonizzazione. La prassi politica di Mandela si inscrive in questa storia specifica delle grandi lotte africane per l’emancipazione umana.
Queste lotte hanno avuto, fin dall’inizio, una dimensione planetaria. Il loro significato non è mai stato solo locale ma sempre universale. E anche quando hanno mobilitato i soggetti locali di un paese o di un territorio ben definito, erano il punto di partenza di una solidarietà forgiata su scala planetaria e transnazionale.
Queste sono le lotte che hanno ogni volta consentito l’estensione o l’universalizzazione di diritti che fin a quel momento erano rimasti appannaggio di una razza. È il trionfo del movimento abolizionista del XIX secolo che mette fine alla contraddizione rappresentata dalle moderne democrazie schiaviste. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’affrancamento delle persone di discendenza africana e le lotte per i diritti civili hanno spianato la strada all’idea e alla pratica di uguaglianza e cittadinanza.
Troviamo la stessa universalità nel movimento anticoloniale. Come vederlo, infatti, se non come la possibilità di manifestare l’origine di un potere proprio – la forza di alzarsi da soli, fare comunità, autodeterminarsi?
Diventando il simbolo della lotta globale contro l’apartheid, Mandela dilata questi significati. Qui, l’obiettivo è costruire una comunità al di là della razza. Nel momento in cui il razzismo è ritornato in forme più o meno inaspettate, il progetto di uguaglianza universale è più che mai davanti a noi.
Resta da dire una parola sul Sudafrica che Mandela si lascia alle spalle. Il passaggio da una società del controllo a una società dei consumi è senza dubbio una delle trasformazioni più decisive dopo la sua scarcerazione e la fine dell’apartheid. Sotto l’apartheid, il controllo consisteva nel monitorare e limitare la mobilità dei neri. Passava per la regolazione degli spazi in cui erano stati confinati con lo scopo di estrarre la maggiore quantità possibile di lavoro. Questo è il motivo per cui sono stati stabiliti microambienti, che funzionavano a volte come recinti e a volte come riserve. I contatti tra gli individui erano stati vietati o regolati da leggi severe, specialmente tra quanti appartenevano a categorie razziali differenti. Il controllo passato quindi attraverso la modulazione della brutalità lungo linee razziali che il potere voleva rigide.
Sotto l’apartheid, la brutalità aveva tre funzioni.
In primo luogo cercava di indebolire la capacità dei neri di assicurarsi la propria riproduzione sociale. Non sono mai riusciti a raccogliere i mezzi necessari per una vita degna di questo nome, che si trattasse dell’accesso al nutrimento, all’abitazione, all’istruzione e alla salute, o ancora di più dei diritti fondamentali della cittadinanza.
Questa brutalità aveva d’altra parte una dimensione somatica. Puntava a immobilizzare il corpo, paralizzarlo, romperlo se necessario. Infine, si attaccava al sistema nervoso e tendeva a essiccare le capacità delle sue vittime di creare il proprio mondo di simboli. Le loro energie erano, per la maggior parte del tempo, deviate verso questioni di sopravvivenza. Sono stati costrette a vivere la loro vita come ripetizione. Tale era infatti il lavoro che il razzismo doveva compiere.
Queste forme di violenza e brutalità sono state infine oggetto di un’interiorizzazione ben più profonda di quello che ci piace ammettere. Dopo il 1994 si sono riprodotte in modo molecolare sul piano della vita comune e di quella pubblica. Si sono manifestate a tutti i livelli delle interazioni sociali quotidiane, che si trattasse della sfere intime della vita, della strutture del desiderio e della sessualità, o in misura maggiore, dell’irrefrenabile desiderio di consumo di ogni tipo di merce.
Questo desiderio sfrenato per il consumo è inteso quale essenza e sostanza della democrazia e della cittadinanza. Il passaggio da una società del controllo a una società dei consumi avviene in un contesto in cui la maggior parte dei neri vive molte forme di privazione. Estrema ricchezza ed estrema privazione coesistono e il divario tra questi due stati tende sempre più ad essere negoziato dalla violenza e da varie forme di accaparramento.
La democrazia post-Mandela è composta principalmente da neri disoccupati e da altri inoccupabili che non hanno diritto di proprietà su quasi nulla. La stessa lunga storia del paese è segnata dal conflitto tra due principi: il governo del popolo da parte del popolo e la legge dei possidenti.
Fino a poco tempo fa, questi erano quasi esclusivamente bianchi e questo è quello che ha dato alla lotta una connotazione razziale. Questo non è più del tutto vero. Tuttavia, l’emergente classe media nera non è in grado di godere in completa sicurezza dei diritti di proprietà recentemente acquisiti. Non c’è certezza che chi ha comprato la casa a credito non se la veda portar via domani con la forza o a seguito di circostanze economiche sfavorevoli. Questo senso di precarietà costituisce uno dei segni della sua psicologia di classe.
Il vecchio movimento di liberazione, l’African National Congress, è stato a sua volta catturato nella rete di una mutazione ancora più contraddittoria. Il calcolo fatto dalle classi dirigenti e dai proprietari di capitale è che la povertà di massa e gli alti livelli di disuguaglianza possono, a determinate condizioni, provocare disordini, scioperi e molti episodi di violenza. Ma ciò non si tradurrà del tutto in una contro-coalizione in grado di mettere in discussione radicalmente il compromesso del 1994 che ha trasferito il potere politico all’African National Congress e consacrato la supremazia economica e culturale della minoranza bianca.
Il Sudafrica sta entrando in un nuovo periodo della sua storia, nella quale il processo di accumulazione non funziona più attraverso l’espropriazione diretta, come nelle guerre di spossessamento del XIX secolo. Passa ormai per la cattura e l’appropriazione privata delle risorse pubbliche, per la modulazione della brutalità e per un relativo sfruttamento del disordine. La formazione di una nuova classe dirigente multirazziale è quindi fatta da una sintesi ibrida di modelli russi, cinesi e africani postcoloniali.
Nel frattempo, lo spazio pubblico progressivamente si ribalcanizza. La geografia demografica del paese si frammenta. Molti bianchi abbandonano l’entroterra e si riuniscono sulle coste, in particolare nella provincia di Western Cape. Hanno paura dell’emergente processo di “africanizzazione” del paese e sognano di ricostruire lì i pilastri di una repubblica bianca liberata dagli orrori dell’apartheid ma consacrata alla protezione dei vecchi privilegi.
Il paradossale attaccamento al contesto psichico del tempo della segregazione razziale rappresenta una risposta solo parziale al processo di trasformazione del paese in una nazione di cittadini armati, una sorta di nazione-guarnigione dotata di una politica profondamente corrotta e militarizzata. Sono i benestanti che beneficiano di una sorta di protezione acquisita attraverso società di sicurezza private e di custodia, detenute in parte dai baroni e dai loro compari al potere[3].
Questo nuovo regime di controllo della merce si consolida nel mezzo di una drastica redistribuzione delle risorse della violenza. E una società armata è tutt’altro che una società civile. Ancor meno è una vera comunità. È un conglomerato di individui atomizzati, isolati davanti al potere, separati dalla paura e dal sospetto, incapaci di fare massa e pronti a mettersi al servizio di una milizia o di un demagogo piuttosto che costruire le organizzazioni essenziali al funzionamento di una società democratica.
Per il resto, dalla vita e dall’agire di Mandela possiamo trarre due lezioni. La prima è che vi è un solo mondo, almeno al momento, e questo mondo è tutto ciò che è. Quello che di conseguenza abbiamo in comune è il sentimento o il desiderio di essere esseri umani a pieno titolo. Questo desiderio di pienezza di umanità è qualcosa che noi tutti condividiamo.
Per costruire il mondo che abbiamo in comune, bisognerà restituire a quelle e quelli che hanno subito nella storia un processo di astrazione e di cosificazione, quella parte di umanità che è stata rubata loro. Ci sarà poca consapevolezza di un mondo comune finché quelle e quelli che sono calati in situazione di povertà estrema non sfuggiranno alle condizioni che li confinano nella notte della vita di mezzo. Nel pensiero di Mandela riconciliazione e riparazione sono il cuore della possibilità stessa di costruire una consapevolezza comune del mondo, vale a dire, il compimento della giustizia universale. Dalla sua esperienza di prigionia, è giunto alla conclusione che c’è un elemento di umanità intrinseca che ogni persona umana custodisce. Questa parte irriducibile appartiene a ciascuno di noi. Fa sì che, oggettivamente, siamo al contempo distinti l’uno dall’altro e assimilabili. L’etica della riconciliazione e della riparazione implica quindi il riconoscimento di ciò che potremmo chiamare la parte degli altri, che non è la mia e della quale sono, pertanto, garante, che mi piaccia o no. Non mi impossesserò di questa parte degli altri senza produrre conseguenze sull’idea del sé, della giustizia, del diritto, ovvero dell’intera umanità, o sul progetto di universale – se questa è effettivamente la destinazione finale.
In queste condizioni, è inutile erigere frontiere, costruire muri e recinti per dividere, classificare, gerarchizzare, per rintracciare l’umanità di quelle e di quelli che ne sono stati privati, che sono stati disprezzati, che non ci rassomigliano, o con i quali riteniamo che non potremo comprenderci mai. C’è un solo mondo, e tutti ne siamo gli eredi, anche se i modi di abitarlo non sono uguali per tutti – proprio lì vive la pluralità di culture e modi di vivere. Dire ciò non significa oscurare la brutalità e il cinismo che ancora caratterizzano l’incontro di popoli e nazioni. È semplicemente richiamare un dato immediato, inesorabile, la cui origine rimanda probabilmente all’inizio dei tempi moderni: l’irreversibile processo di aggrovigliamento e intreccio di culture, popoli e nazioni.
Spesso, il desiderio di differenza emerge proprio dove viviamo più intensamente un’esperienza di esclusione. La proclamazione della differenza è allora il linguaggio inverso del desiderio di riconoscimento e di inclusione. Per coloro che hanno subito la dominazione coloniale o per quelli la cui parte di umanità è stata rubato ad un certo punto della storia, il recupero di quella parte di umanità spesso passa attraverso la proclamazione della differenza. Ma, come ha mostrato una parte della critica africana moderna, questo non è che un momento di un progetto più ampio: il progetto di un mondo a venire, del mondo davanti a noi, la cui destinazione è universale; un mondo libero dal fardello della razza, dal risentimento e dal desiderio di vendetta che tutte le situazioni di razzismo richiamano.
* Pubblicato su “Le Monde diplomatique”, agosto 2013. Traduzione di Anna Curcio su www.commonware.org