Qualche parola sui tragici fatti di Parigi.
Roberto Beneduce
α. Molti hanno parlato dopo i drammatici fatti di Parigi. La risposta dei media, dell’opinione pubblica, e la solidarietà che si è percepita nei giorni scorsi intorno alla Francia, hanno dato l’impressione di un livello di curiosità per i fatti accaduti persino superiore a quello che ci si può attendere oggi da una coscienza politica anestetizzata, spesso ipocrita o complice. Ma il fatto che siano stati in molti a parlare, che tante parole siano circolate, suggerisce anche l’obbligo di prendere tempo per non scivolare nel fiume di un consenso e di una solidarietà da paccottiglia. E l’urgenza di guardare in direzioni diverse da quelle indicate. Con questo intendo dire che non è possibile godere più di un istante per questa e altre ritrovate “unità” contro il “nemico comune”, il terrorismo, quando sappiamo perfettamente che cosa lo alimenta, lo nasconde o lo riproduce. Anzi, il fatto di sapere tutto ciò lo rende ancora più minaccioso, e odioso, di quanto già lo sia. Il perturbante è il nostro volto, nello specchio, scambiato per quello di uno sconosciuto. Ed è questo volto che vorremmo guardare, sebbene la tragedia renda ciò difficile o impossibile, sebbene in questa tragica pièce fanoniana non c’è nulla di sorprendente o inatteso: ogni tassello sembra coincidere come in un puzzle maledetto, ogni personaggio recitare un copione.
β. I governi occidentali e i loro porta-parola sembrano dimenticare che la crescita del benessere e dei diritti non può essere immaginata solo come il privilegio di alcuni paesi, di alcune aree del mondo, poco importa se ciò avvenga o meno a scapito di altri, poco importa se ci siano o meno responsabilità. Ricchezza e diritti non possono stare solo da una parte del pianeta come le foreste pluviali: un’osmosi caotica e incoercibile di donne, uomini, ragazzi proverebbe a ridurre la tensione insostenibile di un gradiente così alto di vita, cibo, opportunità, ed è quanto sta accadendo (la chimica può talvolta aiutare a pensare i fatti, come suggeriva Primo Levi).
In un mondo attraversato dal confine invisibile quanto invalicabile di un nuovo manicheismo economico (vero) e morale (falso), nessuno sa uscire da un labirinto in cui il vero e il falso sono diventati indiscernibili. Perché se è falso immaginare l’Occidente come il luogo di un’umanità libera dall’orrore e dagli abusi (a meno di considerare i diritti umani come una luce intermittente), è anche vero che loro sgozzano, che morti infiniti si stanno accumulando da anni nelle foreste del Congo o nel nord della Nigeria, che bambini e bambine siano venduti, armati, o trasformati in bombe, che uomini e donne siano smembrati quotidianamente da attentati in Afghanistan o Pakistan, che violenze chiamate “rituali” stanno lì a riportare in vita il fantasma di un mondo che sembra ostinatamente voler credere all’incredibile. È vero: sebbene, quando queste immagini di morte escono dai reportage dei nostri giornalisti per entrare nei discorsi dei richiedenti asilo, le commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale concludono spesso che i loro racconti “non sono credibili”…
Qual è, allora, la parte mancante di questo sanguinoso affresco? Quali sono le leggi che regolano questa singolare distribuzione geografica della violenza e della morte?
Forse bisogna rovesciare la prospettiva e ricordare, prima ancora della morte, che cosa è la vita in una larga parte del mondo. Quella dove si vive male, con un solo paio di scarpe, di plastica e spesso ricucite con dello spago, quella dove trenta o quarant’anni di differenza nell’attesa di vita media – ve lo assicuro – contano più di qualunque altra differenza religiosa o culturale.
Ora possiamo interrogarci su chi sono i terroristi, e su chi sono gli alleati contro il terrorismo.
Perché, se il problema oggi urgente è quello della sicurezza, della libertà di espressione, delle minacce di morte, bisogna fare attenzione e non lasciarsi inghiottire dalla retorica dell’emergenza: la stessa che in nome del dolore e di drammi autentici riesce a proporre rivoltanti chirurgie plastiche dei conflitti che ne sono all’origine. Perché se la questione è ora quella del terrorismo, si pone anche un’inesorabile questione semantica quando a utilizzare questa stessa “diagnosi” non sono il giornalismo libero o i familiari delle vittime ma Netanyahu contro i palestinesi di Gaza, Erdogan nei confronti del Syrian-KurdishDemocratic Union Party.
È necessario allora sollevare delicatamente qualche velo, e ricordare, nella consapevolezza che ricordare è spesso molesto e doloroso. E ciò perché sono molti coloro che vorrebbero invece che a prevalere fosse l’oblio, o una memoria comandata, e farci dimenticare che, ad esempio, prima dei vignettisti di Charlie Hebdo un altro vignettista aveva conosciuto la stessa sorte: Naji al-Ali, palestinese, il cui personaggio, Handala, è un bambino muto e ostinato, disegnato sempre di spalle. La mano di Naji al-Ali è stata fermata per sempre, a Londra, nel 1987 (sono due cari amici, Vesna e Amedeo, che ce lo ricordano).
Altri vorrebbero invece che si dimenticasse che la Francia scossa da questi terribili eventi è la stessa che si abbeverava ai fondi dei servizi segreti di Gheddafi, secondo quanto denunciava Mediapart, e che gli Stati Uniti, in prima linea nella difesa dei diritti umani, non hanno trascurato di sostenere diversi dittatori: come EfraínRíosMontt, accusato di genocidio in Guatemala.
Una lunga lista di tragiche complicità sembra stare di fronte a noi e impedirci di trarre sollievo da un consenso che sappiamo essere denso d’ipocrisia. Perché questo Occidente che lotta unito contro il male è lo stesso che ha reso possibile o materialmente eseguito l’assassinio di uomini come Lumumba, UmNyobé o Sankara: quelli che avrebbero forse dischiuso un orizzonte politico diverso a questo continente tormentato.
Gli stessi governi chiamati a difendere i valori della democrazia, del diritto, della libertà di stampa, li abbiamo visti al fianco di dittatori, offrire loro un lasciapassare, difendere interessi vergognosi, o alimentare il terrore vendendo armi a quei talebani che oggi chiamiamo terroristi, fanatici, barbari. Li abbiamo sorpresi indifferenti davanti ai massacri di civili (come a Sabra e Chatila). E abbiamo visto i loro eserciti regolari torturare e irrorare di napalm o di fosforo bianco altri innocenti, e persino ridere di fronte a prigionieri inermi. Li abbiamo trovati su altri fronti, impegnati a liberare il Mali minacciato dall’avanzata dei gruppi islamisti (e i loro soldati perdere la vita in questa guerra), per poi impedire all’esercito maliano, inspiegabilmente, di riprenderne possesso di Kidal, la città dove si erano raccolti leader dei gruppi armati che solo alcuni mesi prima avevano lanciato la loro offensiva contro Bamako.
Com’è possibile che tutto ciò si ripeta? Meglio: com’è possibile che qualcuno pensi che noi si dimentichi?Di certo non manca chi invocherà le buone ragioni che, in questa o quella circostanza, hanno fatto sì che si agisse in un certo modo. E qualcuno potrebbe scrollare le spalle di fronte ad un elenco così eterogeneo. Forse però sono i morti, le vittime, a ricordarci dal loro comune destino la scarsa rilevanza delle differenze. Le complicità, le ipocrisie, l’eliminazione a freddo di oppositori e intellettuali, le violenze perpetrate contro civili “in difesa dei diritti umani”, le alternanze inattese nella difesa dei valori sono parte del problema. Sartre lo aveva a modo suo già detto quando aveva denunciato lo “striptease dei diritti umani”…
γ. Sartre, Fanon, l’Algeria… Chérif e SaîdKouachi, i due fratelli terroristi che hanno ucciso 12 persone, erano algerini, come HayatBoumedienne (la compagna di AhmedyCoulibaly, il responsabile del massacro di quattro persone nel supermercato kosher, nel quartiere ebraico): anche lei è di origine algerina; come SmaïnAït-Belkacem, nato a Blida (sic! La città dove Fanon lavorava come psichiatra negli anni Cinquanta), responsabile di attentati mortali in Francia negli anni ’90; come BoualemBensaïd, arrestato anche lui per diversi attentati, e che AhmedyCoulibaly aveva cercato di far evadere; come Ahmed Merabet: il poliziotto algerino ucciso dai terroristi la settimana scorsa durante l’attacco a Charlie Hebdo.
Ancora l’Algeria, la colonia, il passato. Nei suoi figli e nei suoi nipoti. Da un lato e dall’altro. Ancora una volta un ingrato, Coulibaly, che in luogo di ringraziare la società che lo ha curato per le sue trasgressioni e lo ha integrato, offrendogli un lavoro, si rivolta contro di essa uccidendo innocenti clienti di un supermercato e una giovane donna-poliziotto, che l’antica solidarietà africana dei “monfrère” e “ma sœur” non è bastata a salvare da un altro africano. Su queste “ingratitudini” ci sarebbe da riflettere: forse, fra i più vecchi, qualcuno ricorda le pagine in cui medici come Bentley (in Congo), antropologi come Lévi-Bruhl, psicanalisti come Mannoni (in Madagscar) avevano interrogato quello che per loro era un enigma: “l’assenza di riconoscenza” nei popoli colonizzati…
Non parleremo di “ripetizione”, ora non è tempo, né ci accontenteremo di spiegare tutto pensando solo a una follia tragica e solitaria, speculare a quella di AndersBehringBreivik.
Tuttavia nei fatti accaduti in Francia riemerge qualcosa di oscuro dal passato di quest’Algeria insonne e martoriata. Come uno spettro che continua ad interpellare il presente. Perché è inutile negarlo: questi due paesi non hanno cessato la loro guerra, fosse pure quella di un incubo.
Quando la storia diventa spettrale, non riesce nemmeno però a spiegare il presente: è infatti difficile spiegare la ragione per la quale Chérif e Saîd sono diventati terroristi, e Ahmed un poliziotto (e una vittima dei primi). O perché un uomo originario del Mali, LassanaBathily ha salvato delle persone nello stesso supermercato dove un altro, AhmedyCoulibaly, ne uccideva quattro.
δ. Da queste considerazioni non nasce alcuna alchimia in grado di interpretare quanto accaduto, o prevenirne il ripetersi. Lo psicologico o la Cultura non hanno mai da soli spiegato la Storia, le sue pulsazioni e le sue fratture, sebbene la Storia stia sempre dentro le loro viscere, dormendo negli interstizi del “carattere”, della “personalità”, degli “affetti”, dei “sintomi”, per risvegliarsi poi, bruscamente.
Il “nemico intimo” è quello che inquieta più di ogni altro, il suo volto è quello di un uomo o di una donna comuni, che quando tradisce e uccide, colpisce indifferentemente, anche i suoi fratelli e le sue sorelle: come oggi in Nigeria, in Iraq o in Pakistan, come quello di cui scrive Nandy in riferimento all’India coloniale, o Theidon per il Perù dilaniato di Sendero Luminoso. Abbiamo tuttavia una fortuna smisurata: quella di poter contare sui tanti “amici intimi” che, come LassanaBathily, ci stanno accanto anche quando non lo sappiamo, e che potremmo riconoscere se solo avessimo meno paura. Sono coloro che cercano, ovunque, un’autentica libertà: quella dalle determinazioni del passato (Fanon).
PS. Nel suddividere queste brevi considerazioni in paragrafiho utilizzato lettere dell’alfabeto greco per ricordare che in questi ultimi anni la catastrofe economica in Grecia ha visto drammaticamente aumentare – secondo il GreekGreece Reporter – il numero di ricoveri negli ospedali psichiatrici, oltre il 55% dei quali in forma coatta, e in alcuni ospedali, come quello di Dafni, in Attica, superare il numero di duecento nuovi casi al mese.