Riflessioni a caldo.
L’occasione mancata di Igiaba Scego
Le donne italoafricane, il corpo (nero) e lo sguardo a partire dal quale ci si riconosce.
Partiamo arbitrariamente da un punto preciso della storia degli Stati Uniti d’America: è di circa due secoli l’intervallo che mi interessa ripercorrere rapidamente e che intercorre tra due artiste afroamericane (non necessariamente tra le più conosciute in Italia, ma che certamente Igiaba Scego non ignora). Da An Ethiop Tells You e On Being Brought from Africa to America (Phillis Wheatley, 1773) a Daughters of the Dust (Julie Dash, 1991). Poi, possiamo pure arrivare ai Martin Luther King e alle Toni Morrison della Storia degli Stati Uniti d’America – ben più noti al grande pubblico, anche italiano –, passando per le tante Beyoncé prodotte in questi anni dal marketing musicale.
Formation è l’ultimo dei video musicali della star afroamericana ed è stato “comparato” da Igiaba Scego su Internazionale (http://www.internazionale.it/opinione/igiaba-scego/2016/02/12/cecile-sanremo-negra-canzone) all'”opera prima” di Cecile (Vanessa Ngo Noug), presentata all’ultimo Festival di San Remo (n.e.g.r.a.). Già questo grado di comparazione è discutibile, ma non è però il punto essenziale. Si può anche soprassedere rispetto alla scelta di avere messo accanto l’iniziale (e di certo ancora acerbo) processo di rispecchiamento e riconoscimento di una ragazza romana, figlia di una donna immigrata camerunese, con il prodotto musicale di una star internazionale che non ha di certo iniziato la sua carriera con Formation. Il punto, dicevo, è piuttosto un altro: la consapevolezza del corpo (nero) nel discorso della donna (nera) nella Storia.
C’è di che far tremare i polsi.
Secondo Igiaba Scego in Formation “Beyoncé ci porta per mano dentro la sua identità di donna nera e lo fa con un orgoglio che me l’ha resa subito sorella. […] nel tempo è cresciuto il suo impegno nel movimento #BlackLivesMatter e la sua blackness, prima sotto tono, ora non solo è manifesta, ma esibita senza paure. Formation è di fatto il suggello di questo percorso umano e artistico. Il corpo nero nel video di Beyoncé ha una storia, una genealogia, una miriade di possibilità di realizzazione”.
Per Cecile le parole sono decisamente più asciutte, al limite della sopportazione, perché nessuna identificazione è possibile con questa sorella mancata che “si rivolge a un tu bianco. Un tu dominante. Un tu maschio”. Cecile tradisce perché parla ad un “uomo bianco capitalista” mentre gli offre il suo corpo voluttuoso e nudo, pur sapendo che nessun destino orgoglioso potrà levarsi da “quelle lenzuola bianche che più bianche non si può”.
Si chiede Scego: “Perché il ruolo è sempre lo stesso, nelle cartoline come nel videoclip, quello di un essere sottomesso al patriarcato bianco e capitalista. Possibile che non abbiamo fatto, noi afroitaliane, alcun passo in avanti da quella posizione supina? Possibile che siamo ancora nude davanti al potere che ci vuole mangiare?”. Il ricordo è alle cartoline degli zoo umani, dei giardini di acclimatazione, dei soldati al fronte che ritraevano le nere nude, somale, etiopi, eritree, libiche …
Se i corpi neri di Formation sono così uguali e contemporaneamente diversi a quelli dei Gullah dell’Isola di Sant’Elena nella Georgia e della Carolina del Sud (messi in scena magistralmente da Julie Dash nel suo film indipendente, come era indipendente tutta la L.A generation dell’UCLA di Los Angeles), è perché due secoli di storia non sono irrilevanti nelle modalità di espressione e di presa di parola. Beyoncé non deve (ri)scrivere la storia da sola come aveva fatto Phillis Wheatley due secoli prima. Non c’è solo Julia Dash prima di lei, ma intere generazioni di donne afroamericane che hanno detto, scritto, ricordato, testimoniato, sbagliato, ecceduto, taciuto … C’è già un discorso, che la preesiste e a cui lei da un suo contributo, come può, come riesce, nulla più. Suo è il compito di tradurlo in musica, parole e immagini: può, alla fine, piacere o non piacere, ma non vi è nulla di originale nel suo discorso.
L’ossimoro fondatore, come Alessandro Portelli ha ribattezzato la poetessa Phillis Wheatley, fa qualcosa di molto più pericoloso, per questo perturba, scandalizza e lascia senza fiato leggere la sua creazione poetica. Perché quando, nella Storia, il discorso è prodotto per la prima volta, quello che emerge spesso è scomodo, spurio, opaco e insostenibile.
Vale allora la pena chiedersi quali siano le condizioni necessarie perché una identità-in-formazione possa emergere, anche nelle profonde ambivalenze e nelle lacerate ansie identitarie (il “Je suis F’ançais tuot comme aut” di Lucette Ceranus Combetté, alis la Mayotte Capecia tanto criticata da Fanon, che, mangiandosi la R, denuncerà il suo essere martinicana al poliziotto che non la lascia espatriare con il figlio-mezzobianco, ricordandole che lei dimenticava di essere una donna di colore). La resurrezione nella e della differenza può avvenire solo se sono garantite condizioni reali di uguaglianza. Se la richiesta perpetua che viene fatta all’Altro, da generazioni, è l’obbligo di dimostrare la sua uguaglianza (che non viene data a priori), come potrà il Subalterno da solo/a trovare la forza per manifestare la sua differenza di fronte al “Tu Dominante”? E, allora, all’inizio mi do come tu mi vuoi. Mi rappresento come è tuo desiderio che io sia, uguale alle tante altre donne che sono state messe in questa stessa posizione (pensiamo davvero ci sia il monopolio di un’unica categoria del femminile ad essere stata definita dallo sguardo razzista maschile?). Colonie interiori. Come si scrive (si canta, si balla) allora per liberarsi se lo sguardo dell’altro è stato così performativo?
Phillis Wheatley fu la prima donna schiava a scrivere e ad appropriarsi della lingua del Padrone per esprimere la sua gratitudine nei confronti di chi l’aveva portata in America all’età di sei o sette anni, e l’aveva venduta come domestica a una coppia di Boston che le fece conoscere la Bibbia. Per liberarsi dal fardello dell’analfabetismo e dimostrare attraverso l’atto di scrittura che la sua razza era umana, scelse un atto di ringraziamento e non di protesta. Mi chiedevo in un lavoro pubblicato su Aut-Aut nel 2012 cosa Frantz Fanon avrebbe pensato di questo “ossimoro fondatore”. Mi chiedo qui cosa ne pensiamo noi di quel processo che porta alla formulazione di un desiderio meno assoggettato pur passando attraverso un sistematico lavaggio del cervello (e dunque attraverso dei ringraziamenti autentici o delle immagini di sé che riproducono lo stereotipo coloniale nel mondo postcoloniale che tutti abitiamo, ma che après coup sono ringraziamenti o immaginari biasimevoli)?
Ora Cecile non è né Phillis Wheatley, e in effetti il suo non è un atto di ringraziamento; non è neanche Beyoncé e la sua musica, in questo momento, non è di “lotta” né di orgoglio nero. Né può rappresentare con il suo discorso tutte le donne etiopi, somale, eritree e libiche umiliate dal padrone italiano (pur nella consapevolezza che non solo di umiliazione si è trattato), perché lei viene da un’altra storia. È evidente che il suo discorso incorpora un’altra storia. La cacofonia è preziosa, e questo Scego se lo dimentica troppo in fretta come se fosse possibile ricostruire un’unica storia della donna afroitaliana. Ma perché mai nel suo primo atto di presa di parola avrebbe dovuto parlare alle sue sorelle nere? (Chi sono, ci sono, vi ci si riconosce?) E da dove si legittima questa aspettativa rispetto ad un immaginario interlocutore giusto?
Cecile non ha tanti esempi da seguire: il suo discorso soggettivo e generazionale è all’inizio, acerbo dunque. Una Bamblozzed, tutta femminile, con le idee chiare, determinata e d’effetto, ma pur sempre “sola” nel portare avanti il suo discorso. Decide di iniziare a rivolgersi verso lo sguardo che più l’ha definita, nei suoi anni d’infanzia e adolescenza. In questo non è diversa dalle tante Phillis Wheatley che prendono la parola per la prima volta. Si parte laddove ci si è sentiti maggiormente chiamati in causa, esposti, alla mercé di una identificazione distorta.
Messo da parte il marketing – che c’è ed è ovvio – se sentiamo fastidio nel vedere questa ragazzina di vent’anni così nera tra le lenzuola bianche è perché il suo discorso non è solo di protesta o denuncia: il suo sguardo è fiero e desiderante allo stesso tempo. Cecile invita, seduce, sta al gioco dell’altro (un inciso: per quanto non sia del tutto convincente l’ultimo lavoro di Toni Morrison, God help the Child, non è un caso che la scrittrice ritorni proprio sulla questione del colore e racconti la storia di una giovane afroamericana dalla bellezza conturbante, con la sua pelle di un nero carbone sempre avvolta in abiti bianchi panna avorio, a voler dire che pure nella consolidata tradizione afroamericana la questione è tutt’altro che risolta e ben dicendo che l’alienazione è ormai tutta interna; insomma, non serve più lo sguardo del bianco a generare violenza). Cecile sembra non aver rinunciato ad un incontro sessuale possibile e mentre denuncia lo sguardo che animalizza sembra dire che è pronta a rischiare.
Fa appello ad un altro riconoscimento possibile. Non smette di desiderare l’incontro, per quanto insidioso e sempre esposto a forme rozze e volgari di violenza. Questo è inaccettabile per quelle donne (italiane o italo africane) che hanno già deciso cosa non faranno assolutamente mai. Che una donna nera desideri un bianco non si da nella storia se non come forma di violenza, vendita, sopruso, stupro o prostituzione, mercificazione di sé, “lattificazione”. È la storia che ci ha insegnato questo e anche Fanon vedeva nel rapporto nera-bianco il punto più alto di tutte le alienazioni sessuali (scagionando invece la donna bianca desiderante un corpo maschile nero: ma qui forse c’era dell’autobiografico che si dovrebbe riprendere con maggiore calma).
Cecile, in un testo un po’ costruito a tavolino-un po’ d’effetto-un po’ stucchevole, denuncia che questo sguardo maschile è delle donne stesse. Della madri fuori da scuola. Delle “sorelle” dentro casa. I ringraziamenti degli italiani nei balletti televisivi sono stati di circostanza; i commenti dei Black Italians, a quanto scrive Scego, sono stati di critica. C’è da credere che tutti sperino che ci si dimentichi in fretta di lei.
Sembra che tutte le donne che stentiamo a riconoscere come “sorelle” (bell hooks) siano sempre imbarazzanti, ormai per gli uni e per gli altri. Penso che quando un’identità-in-formazione prende la parola, l’ascolto deve farsi più sottile e complice, perché le vie del riconoscimento sono tortuose e sempre inedite. Chi immagina un’unica Grande Storia della donna africana cresciuta americana, italiana o caraibica non potrà che restare delusa dalle forme di un’emancipazione desiderante che non rinuncia allo scandalo autentico dell’incontro con l’altro. Non stupisce, allora, che quando il primo discorso emerge, esso non sia di sorellanze precostituite, ma di percorsi indefiniti tutti in divenire.