Notre musique (Godard, 2004)
Intervento-rielaborazione di Enrico Bartolomei della sua introduzione per il volume “Esclusi. La globalizzazione neoliberista del colonialismo di insediamento” (Derive Approdi, 2017).
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Esclusi (DeriveApprodi 2017) raccoglie una serie di saggi sul colonialismo di insediamento, una forma particolare di colonialismo in cui la popolazione indigena viene rimpiazzata da una nuova società di coloni che si insediano in pianta stabile nel territorio colonizzato. Il colonialismo di insediamento non è la stessa cosa del colonialismo classico: nel primo caso la potenza coloniale mira allo sfruttamento dei mercati, delle risorse e della manodopera indigena, trasferendo nella colonia solamente il personale amministrativo, militare e gli uomini d’affari; nel secondo, i coloni che si trasferiscono nel territorio conquistato mirano a sostituirsi alla popolazione nativa. Un chiaro esempio di colonialismo classico è la dominazione britannica in India, mentre esempi di colonialismo di insediamento sono gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, il Sudafrica, Israele. Benché siano fenomeni distinti, a volte i due tipi di colonialismo possono coesistere: si pensi al caso dell’Algeria sotto il dominio francese, o alla Palestina sotto il Mandato britannico.
Se nel colonialismo classico i nativi sono economicamente utili, e vanno perciò sottomessi, ma non eliminati, nelle colonie di insediamento, al contrario, essi sono di ostacolo all’accaparramento della terra da parte dei coloni e devono perciò scomparire. Per dirla con l’antropologo Patrick Wolfe, nel colonialismo di insediamento la “logica di eliminazione dei nativi” prevale sulla logica dello sfruttamento. La differenza fondamentale tra le due tipologie di colonialismo non è di poco conto. Se il colonialismo si estingue con la decolonizzazione, cioè quando l’ex colonia conquista l’indipendenza dalla metropoli, nelle colonie di insediamento, indipendenza non è sinonimo di decolonizzazione per i nativi: al contrario, attraverso l’indipendenza i coloni europei rompono il legame con la metropoli coloniale e, al tempo stesso, accelerano il processo di spoliazione degli indigeni. È durante la “guerra di indipendenza” dalla Gran Bretagna che Israele perpetra la pulizia etnica dei palestinesi.
Una delle affermazioni fondanti di questo campo di studi è che il colonialismo di insediamento è una struttura e non un evento. Uno sguardo comparato alle società nate dall’insediamento coloniale europeo, infatti, mostra come le relazioni diseguali di potere tra coloni e nativi si mantengono e si riproducono nel tempo, assumendo varie forme in base alle mutate circostanze storiche. Ad esempio, quando i coloni non sono riusciti a ottenere la superiorità demografica, questi mantengono il dominio tramite la rigida separazione dai nativi e dagli altri gruppi subalterni: si pensi all’apartheid in Sudafrica e in Israele/Palestina. Al contrario, se i coloni rappresentano la maggioranza (è il caso di Stati Uniti, Canada, Australia, per gli insediamenti coloniali di area anglofona, ma anche di Argentina, Brasile e Cile per i paesi coloniali dell’America latina), la logica eliminatoria può assumere le forme dell’assimilazione dei nativi nella società coloniale o addirittura del riconoscimento dei loro diritti linguistici e culturali. Questo avviene poiché i nativi, decimati dall’espansione coloniale, non rappresentano più una minaccia demografica e non sono nelle condizioni di rivendicare l’indipendenza politica e la sovranità sui territori espropriati.
Per questo motivo negli stati coloniali d’insediamento non si può parlare di post-colonialismo: il rapporto tra i coloni di origine europea e i nativi resta tuttora caratterizzato da forti disuguaglianze nell’accesso alle posizioni di potere e alle risorse, oltre che da persistenti e radicate forme di discriminazione in settori come alloggio, educazione, sanità, proprietà agricole, alfabetizzazione e aspettativa di vita. D’altro canto, i coloni col tempo tendono a “indigenizzarsi”, sviluppano cioè un attaccamento a quella che considerano ormai la loro patria, rendendo problematica una loro eventuale evacuazione. Per questo risulta difficile parlare di decolonizzazione a meno che, oltre al riconoscimento dell’ingiustizia storica inflitta ai nativi, non si intraprenda un processo di radicale e concreto trasferimento delle ricchezze, delle proprietà e delle risorse accumulate dai coloni di origine europea e dai loro discendenti alle popolazioni native spossessate, e questo non può avvenire senza intaccare in maniera sostanziale i privilegi e il potere di cui godono i coloni. In altre parole: rimettendo in discussione la struttura statale coloniale e suprematista bianca dello Stato.
Uno sguardo comparato alle società nate dall’insediamento coloniale europeo mostra come queste, per giustificare la spoliazione dei nativi, abbiano fatto ricorso a una comune mitologia della “terra vuota”. Ad esempio, gli europei che colonizzarono gli Stati Uniti elaborarono la teoria del vacuum domicilium, secondo la quale i territori non occupati in maniera permanente e non sottoposti a coltivazione (secondo i parametri europei) dovevano essere considerati “vacanti” e potevano essere “legittimamente” acquisiti, rimuovendo senza troppi scrupoli i “selvaggi indiani” che li abitavano da secoli. Anche gli europei che sbarcarono sulle coste dell’Australia dichiararono il territorio terra nullius, ovvero “terra che non appartiene a nessuno”. Questa dottrina permise alla Gran Bretagna di rivendicare la sovranità sull’intero continente australiano, nonostante da millenni fosse già abitato dalla popolazione aborigena. Analogamente, i dirigenti sionisti propagandarono nel mondo occidentale l’idea che la Palestina fosse “una terra senza un popolo per un popolo senza terra”, cancellando nell’immaginario comune la presenza degli arabi palestinesi prima ancora di procedere alla loro espulsione manu militari. In tutti questi casi, il mito della terra vuota prefigurava sul piano simbolico il suo svuotamento effettivo.
Lo studio comparato permette anche di confutare le pretese di unicità storica, di eccezionalismo e di superiorità morale avanzate dalle colonie di insediamento. La dottrina del “popolo eletto”, ricavata dal Vecchio Testamento, ricorre nella colonizzazione puritana inglese degli Stati Uniti, in quella riformata olandese dei boeri nel Sudafrica e in quella degli ebrei sionisti in Israele/Palestina. Essa servì simultaneamente da ideologia di occupazione coloniale della “Terra promessa” e da fondamento della supremazia etnico-religiosa degli “eletti”. Si pensi alla dottrina del “destino manifesto”, secondo cui la nazione statunitense avrebbe il diritto storico o divino all’espansionismo territoriale sul tutto il continente. La convinzione di assolvere una missione salvifica universale è rimasta un elemento centrale dell’ideologia politica statunitense: la dottrina del destino manifesto sarebbe poi diventata Dottrina Monroe, delle Porte aperte, del Contenimento, fino ad arrivare alla Dottrina preventiva e della Guerra al terrorismo, che sancisce il diritto all’interventismo territoriale illimitato senza riguardo per le norme internazionali se considerate di ostacolo agli interessi strategici degli Stati Uniti.
L’analisi degli insediamenti coloniali europei getta nuova luce sulle trasformazioni del capitalismo contemporaneo. Come afferma Lorenzo Veracini, professore alla Swinburne University in Australia, il colonialismo di insediamento come modo specifico di dominio è diventato globale e definisce gli ordinamenti politici attuali. La tesi centrale è che la logica eliminatoria del colonialismo di insediamento continua a operare attraverso la logica estrattiva del regime neoliberista, producendo nuove forme di esclusione simili a quelle sperimentate dalle popolazioni native.
A differenza del capitalismo industriale, che aveva bisogno, per espandersi, di nuovi mezzi di produzione e quindi di nuova forza lavoro, il capitalismo attuale sottrae ricchezza e risorse dai territori a scapito del sostentamento delle popolazioni e degli ecosistemi locali. L’economista David Harvey ha coniato l’espressione “accumulazione per espropriazione”. L’intellettuale uruguayano Raul Zibechi ha usato invece il termine “estrattivismo”. Alcuni esempi sono l’industria mineraria e degli idrocarburi, le imprese agroalimentari orientate all’esportazione, la costruzione delle grandi infrastrutture di collegamento (le “grandi opere” come il TAV) tra i siti di estrazione, le industrie di trasformazione e i centri del consumo, la finanziarizzazione dell’economia, la gentrificazione degli spazi urbani, l’estrazione di informazioni e dati personali da parte delle grandi aziende del web.
Nel capitalismo estrattivista, la logica di eliminazione dei superflui prevale sulla logica di sfruttamento dei lavoratori tipica invece del capitalismo industrial-produttivista. Al centro del sistema economico mondiale, nei paesi industrializzati, il capitalismo estrattivista opera attraverso la privatizzazione delle imprese pubbliche e dei beni comuni come istruzione, sanità, conoscenza, assistenza e previdenza sociale, spazi pubblici. Questo processo di sottrazione ha bisogno di un regime politico che agisca per conto degli interessi privati e che sia in grado di “gestire” o di “mettere in sicurezza” le popolazioni recalcitranti: è il regime neoliberista, autoritario e di polizia, che opera formalmente nello stato di diritto, ma che è pronto a operare nello stato di eccezione nei territori considerati d’interesse strategico, sulle popolazioni superflue e in generale sulle nuove “classi pericolose” (disoccupati, sottoccupati, precari, lavoratori informali, immigrati, attivisti e organizzazioni dichiarate sovversive).
Nelle periferie del sistema economico mondiale, invece, l’estrattivismo si impadronisce direttamente delle risorse primarie del suolo e del sottosuolo, e lo fa al di fuori dello stato di diritto servendosi della violenza predatoria di regimi coloniali o neo-coloniali che militarizzano i territori in prossimità dei siti di estrazione. La rinnovata centralità delle lotte indigene e popolari per la sopravvivenza culturale e per l’autogoverno dei propri territori dimostra che gli stati-nazione nati dall’insediamento coloniale europeo operano ancora secondo la logica eliminatoria, che da un lato esclude le popolazioni native dall’ordinamento statale, e dall’altro sottrae ricchezza alle loro comunità, trasferendola verso le élite locali, le imprese estrattive e i grandi investitori internazionali.
La novità è che questo capitalismo di rapina non ha più bisogno della popolazione per produrre ricchezza. Le popolazioni native e la nuova classe dei superflui condividono perciò la condizione di “eccedenze umane”, surplus di popolazione marchiata come “inutile” ed espulsa dallo stato coloniale e dal circuito della produzione capitalista. La gestione delle nuove masse di esclusi diventa un problema di ordine pubblico da delegare agli apparati disciplinari del sistema penal-poliziesco. Quest’umanità eccedente, quando non carcerizzata, viene ammassata nelle periferie urbane, in spazi delimitati e sorvegliati da polizia e guardie private, o confinata in aree isolate e circondate da recinzioni: si pensi ai palestinesi segregati nella Striscia di Gaza o ai poveri ammassati nelle baraccopoli dell’America Latina o dell’Africa subsahariana, vere e proprie discariche umane.
In altri termini, il capitalismo estrattivista opera secondo modalità di espulsione e confinamento della popolazione economicamente superflua simili a quelle impiegate dal colonialismo di insediamento nell’espulsione e nella segregazione delle popolazioni native. L’eliminazione dei nativi nei contesti coloniali di insediamento continua oggi nella forma dell’accumulazione per spossessamento tipica dell’estrattivismo.
Comprendere questa continuità nell’espulsione è di fondamentale importanza per affrontare efficacemente il presente coloniale.