Vi scrivo, in quanto cittadino, medico e psicoterapeuta che lavora al Centro Fanon. Vi scrivo, in quanto sono stufo, indignato e disgustato nel cercare di curare delle piaghe sociali che si potrebbero prevenire. Vi scrivo, perché di fronte a certe situazioni che mi portano i miei pazienti stranieri, mi vergogno di essere italiano e mi mancano le parole per commentare ciò che sta accadendo nel mondo che abitiamo. Perché credo che, per tutelare la salute dei miei pazienti, sia necessario denunciare in uno spazio esterno ciò che mi viene portato negli spazi intimi di ogni seduta. Perché penso che in fondo ciò che succede sia responsabilità di tutti noi e che, se volessimo davvero, le cose si potrebbero cambiare.
Vi scrivo perché sto cercando disperatamente una casa (un bilocale) per due mie pazienti, ma come per molti stranieri in questo periodo, trovare un’abitazione in affitto è praticamente impossibile.
Ho conosciuto Céline e Amara qualche anno fa. Entrambe provengono dall’Africa Subsahariana occidentale e hanno portato con sé delle storie spaventose, che per certi versi le accomunano e che forse le hanno fatte incontrare e stringere amicizia. Sono state costrette a scappare in Europa per sopravvivere, letteralmente, obbligate a lasciare le loro bimbe in Africa. Quando le conosco mi portano l’estrema sofferenza e disperazione per aver perso ogni contatto con chi si stava prendendo cura delle loro figlie. Dopo mesi e mesi entrambe per vie traverse riescono a recuperare telefonicamente contatti con i caregiver delle bambine. Sono fortunatamente al sicuro. Entrambe le donne sono richiedenti asilo, non riescono a trovare lavoro sino a quando non ottengono un impiego per poche decine di euro al giorno come raccoglitrici di frutta nei campi di Saluzzo. Essendo obbligate, per non uscire dal progetto di accoglienza, a stare a Torino, per alcuni mesi si svegliano alle 5.00 e tornano a casa alle 10.00 di sera. Resistono, nonostante la vita abbia tentato di piegarle in ogni modo. Riescono a racimolare quel prezioso denaro da inviare a chi si occupa delle loro figlie ed è in difficoltà. Vengono però pagate con un assegno. Loro non hanno un conto in banca e non c’è modo di incassarlo. Avrebbero diritto ad aprire un conto per riscuotere l’assegno con la semplice ricevuta della presentazione della domanda di asilo. Sono assistite da abili operatrici, ma ogni banca a cui bussano alla porta dice loro che non si può fare. Alcuni chiedono la carta d’identità, di fatto non necessaria, ma loro non possono averla perché, a causa del decreto Salvini (poi abrogato dalla corte costituzionale) non possono avere la residenza. Così per mesi… e non potete immaginare l’impotenza che si prova dovendo trovare qualche parola per dare senso a ciò che senso non sembra avere… e che per certi versi risulta quasi più inspiegabile di quelle profonde ferite psichiche e fisiche occorse nel paese d’origine e durante il viaggio. Provate un attimo a mettervi nei loro panni!
Dopo mesi e mesi, convinciamo un datore di lavoro a pagare una ragazza in contanti e l’altra riuscirà ad aprire un conto in Banca Etica.
Passano alcuni anni. Céline e Amara ottengono l’asilo politico. Entrambe lavorano da tempo a Torino con dei buoni contratti e beneficerebbero anche delle misure di integrazione del comune (pagamento di sei mensilità di affitto), nonché delle garanzie del pagamento di dodici mesi di affitto in caso di sfratto [1]. Stanno cercando da mesi un bilocale insieme, nell’attesa del ricongiungimento con le loro figlie, perché entrambi i progetti di accoglienza finiranno verso metà Ottobre, ma niente da fare!
Tutte le agenzie a cui si rivolgono, dicono che non c’è disponibilità. Se dopo pochi minuti passa però una persona italiana, miracolosamente vi sono edifici disponibili. L’esperienza peggiore mi viene raccontata da un altro mio paziente sempre di origine africana. Anch’egli lavora, laureato in filosofia, parla bene italiano, tanto che al telefono non si accorgono del suo essere straniero e gli dicono che avrebbero disponibilità di un alloggio per lui e la sua famiglia. Quando però racconta di essere del ******, la persona dell’agenzia gli chiede se il paese si trovi in Asia. Lui risponde “no, è in Africa”. La persona dell’agenzia, confusa, gli chiede allora “mah, hai la pelle bianca o nera”?
Ma davvero si può essere così sfacciati! Lui risponde ovviamente che è nera. La telefonata si chiude velocemente. Dopo quindici minuti la ragazza richiama dicendo che purtroppo l’alloggio non è più disponibile. Un amico del mio paziente passerà, però, il giorno dopo e gli diranno che alloggi disponibili ce ne sono!
Un altro ragazzo che seguo, proveniente dalla Turchia, studente universitario, richiedente asilo a causa della partecipazione alle proteste contro il regime di Erdogan a Gezi Park, per ricevere una donazione e poi poter attivare un tirocinio lavorativo, cerca di aprire una Postepay o un conto alle poste. Viene rifiutato da ben cinque uffici postali! In alcuni l’addetto che da i bigliettini gli dice addirittura che non è possibile e lo manda via all’ingresso. Gli operatori lo lasciano parlare, ma lo liquidano anch’essi velocemente, nonostante abbia in mano un fascicolo redatto dal suo avvocato dove viene riportato, sia in una circolare dell’ABI (associazione bancaria italiana) che in una risposta scritta di Poste Italiane rispetto ad una passata simile richiesta, che egli ha diritto ad aprire perlomeno un conto base. Ma niente da fare!
Quando, però, si farà accompagnare da un volontario dell’Associazione Fanon, gli verrà dato un appuntamento con il direttore che ci dirà che in teoria si può fare, ma questi conti possono essere fatti solo da una filiale ubicata a Reggio Calabria, con cui è ancora in contatto per finalizzare dei conti base di circa sei mesi fa!
Robe da impazzire… anche per chi non ha problemi di salute mentale. Anche qui risolveremo con Banca Etica.
Non si tratta di casi particolari. Si tratta di un’epidemia. Seguendo le vicende dei miei pazienti, ho avuto modo di confrontarmi con l’Ufficio Stranieri del Comune di Torino, dal quale mi hanno segnalato che per svariate decine di persone, con contratti a tempo indeterminato da circa 1000-1200 euro al mese, non sono riusciti a trovare alcuna soluzione abitativa in affitto.
Tutte queste cose hanno due nomi: razzismo e violenza strutturale. Il primo non richiede spiegazioni. Il secondo è un concetto elaborato da Paul Farmer, il quale ci spiega che spesso la violenza nei confronti di alcuni gruppi minoritari, come in questo caso i migranti, non necessita necessariamente di una qualche forma attiva e visibile di azione (come chiedere il colore della pelle per avere una casa!!), ma avviene in forma processuale e indiretta, attraverso piccole violenze, spesso non visibili singolarmente come tali ed offuscate dall’ambiguità di alcune procedure o leggi. E’ una violenza che si incardina nelle strutture simboliche e sociali che consentono la produzione e la naturalizzazione dell’oppressione, della marginalizzazione, del bisogno e della dipendenza. Se uno di quegli operatori delle poste si fosse alzato, avesse dato una sberla e avesse cacciato a pedate il mio paziente dicendo “tornatene al tuo paese” sarebbe stato un reato, persone sarebbero forse occorse in sua difesa, si sarebbe potuto denunciare il tutto… mentre con tante piccole botte invisibili, dove spesso, come nella “banalità del male” di Hannah Arendt, si eseguono “semplicemente” degli ordini, sembra non esserci alcun male, anche se le botte probabilmente sono ancora più forti.
Tutto ciò per me è scandaloso e spesso condiziona la sofferenza dei miei pazienti più delle tante ferite della storia che si portano dietro. Scrivo questo piccolo testo per denunciare tutto ciò e provare a fare qualcosa.
Stare in silenzio e fermi è rendersi complici di ciò che sta accadendo, delle violenze che accadono sotto i nostri occhi, oltre che a quelle che avvengono nei “campi di concentramento” che si trovano in Libia e nel nostro stesso paese e che facciamo chiamare C.P.R.
Cosa fare?
- Se conoscete qualcuno disponibile ad affittare una casa a delle persone che non siano bianche, ricche e occidentali, vi prego di segnalarmelo (jean.aillon@gmail.com).
- Dovremmo organizzarci e mobilitarci come società civile per protestare contro tutto ciò. Il tema della casa in questo momento potrebbe essere un buon collante per un’azione comune di protesta ed advocacy.
Si tratta, ovviamente, di una questione complessa, dove più che dell’etnia o del colore della pelle, ciò che è critico è la situazione di povertà e disagio sociale delle persone che spesso si trovano costrette a non poter più pagare un affitto. Urge a mio avviso un’azione pubblica che da una parte si faccia garanzia per i proprietari dei danni che potrebbero avere con persone inadempienti (straniere e italiane ovviamente), quando sussistono certi criteri di redito. Al contempo andrebbero pensate forme di incentivo per affitti a persone in situazione di difficoltà. Contestualmente le abitazioni che rimangono sfitte, oltre un certo lasso di tempo, dovrebbero essere tassate maggiormente. Infine, potrebbero essere attivati dei progetti che permettano alle realtà che seguono i migranti nell’accoglienza di poter accompagnare al meglio le persone anche nel percorso post-accoglienza.
Chiunque sia interessato a fare qualcosa, compili questo form. Se raggiungeremo un numero sufficiente si potrebbe organizzare una riunione e parlarne insieme. Chissà…
Jean-Louis Aillon
Medico, psicoterapeuta e analista adleriano che lavora presso il Centro Frantz Fanon.
PS: I tempi sembrano maturi e mentre pubblico quest’articolo mi hanno segnalato che a breve sarà lanciata l‘iniziativa “Non si affitta a persone straniere” attraverso la quale sarà possibile fare un monitoraggio di episodi di discriminazione abitativa , attraverso la compilazione di un modulo in cui sarà possibile segnalare, in forma anonima e dettagliata, gli episodi discriminatori vissuti o di cui si è testimoni. L’iniziativa è promossa da all’Associazione Almaterra, Punto Informativo della Rete Regionale contro le discriminazioni con il sostegno del Nodo metropolitano contro le discriminazioni della Città metropolitana di Torino e dall’Associazione Arteria Onlus.
[1] Per maggior informazioni: http://www.comune.torino.it/locare/
2 commenti su “A Torino non ci sono case per gli stranieri”
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