Su un’aggressione…

Il 30 settembre una donna, a Torino, è stata aggredita su un autobus. Un uomo l’ha insultata e colpita in modo feroce solo perché la donna aveva detto che doveva scendere anche lei, che si sarebbe spostata al momento giusto. Rimane il referto medico (contusioni multiple, frattura di una costola…), ma al di là di queste parole nient’altro: niente di quello che vorremmo leggere. Il referto non parla del colore della pelle della donna aggredita (una donna di colore, somala: Suad Omar). Né di quello dell’aggressore (un bianco): un referto è oggettivo, dice l’essenziale, non il superfluo. Non annota nemmeno le parole con le quali Suad è stata offesa e ferita (le parole più volgari e facili da pronunciarsi contro una donna, le stesse che, in una città come Torino, oggi sembra naturale pronunciare contro una donna nera). Il referto medico non ricorda, infine, che durante l’aggressione nessun cittadino si sia frapposto e l’abbia difesa. Intendo dire nessun cittadino onesto, con documenti in regola, residenza e tutto il resto: insomma, quelli che piacciono ai guardiani delle nostre frontiere, ai ministri che di fronte alle tragedie di un naufragio possono discettare sulla necessità di verificare il resoconto dell’accaduto o sulla differenza fra “veri richiedenti asilo” e “semplici clandestini” da arrestare, identificare, espellere. L’hanno difesa solo due stranieri, un somalo (un rifugiato) e un altro straniero, anche lui di colore, che ha poi dovuto abbandonarla perché, non avendo forse documenti, non essendo “in regola”, non poteva rischiare di incontrare la polizia. Prima di essere soccorritore, rimaneva un clandestino: un uomo esposto.

Inutile invocare l’imbarbarimento delle nostre città, come si grida da qualche tempo, ed inutile anche difendere da parte dei primi cittadini il carattere profondamente civile delle città che amministrano. La barbarie non è mai esistita, e non appartiene ad un altro mondo perché il mondo è uno solo. Sono, i fatti che ho ricordato, nient’altro che i segni di una decivilizzazione (Wacquant) crescente, minacciosa, alimentata da un linguaggio politico razzista e maschilista quale non avremmo mai immaginato (troppe, ahimè, le citazioni possibili), da un immaginario che ancora sanguina sulla linea del colore. Inutile, infine, attardarsi sul profilo psicologico e sociale dell’aggressore, non troveremmo nulla di nuovo (di una donna di colore può essere ancora fatto e detto quasi tutto). Suad, quanto a lei, madre e donna somala da molti anni in Italia, è una mediatrice culturale impegnata, sensibile, saggia. Collabora, fra l’altro, con il Centro Frantz Fanon, un centro che si occupa di stranieri con problemi di disagio, e quel giorno si stava recando a trovare una nostra paziente in ospedale. Certamente riuscirà, con la sua forza e la sua intelligenza, a interpretare persino questa assurda aggressione, persino la violenza di cui è stata vittima. Con Virgina Woolf e tante altre donne, ripete a se stessa che come donna non ha un paese, e non ne vuole alcuno perché, come donna, il suo paese è il mondo. La questione è quale mondo (quale paese) è quello nel quale viviamo.

Roberto Beneduce & Associazione Frantz Fanon

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