Due parole su uno sgombero in una città possibile

La caserma La Marmora, in Via Asti, è ricordata dagli anziani come un luogo di violenze e urla: quelle dei partigiani torturati dalla Guardia Nazionale Repubblicana, istituita da Mussolini nel ’43.
In quella caserma sono passati negli scorsi anni i rifugiati del Corno d’Africa, sgomberati dall’ex clinica San Paolo nel 2009 (l’ultima ala è stata sgomberata solo qualche giorno fa). E più recentemente ventisei famiglie rom e rumene, sgomberate ieri, sebbene fra loro avessimo visto nei giorni scorsi bambini, anziani e donne gravide. Ciò che non si farebbe, in tempi normali, diventa possibile in tempi di ordinaria eccezione.

Quella caserma è stata venduta alla Cassa Depositi e Prestiti, un ente a larga partecipazione statale. Facile prevedere gli appetiti che tali edifici scatenano. Sembra più facile promuovere grandi progetti o interventi umanitari che ascoltare ciò che una donna o un uomo chiede, in concreto, oggi, e che potrebbe essere realizzato forse con loro, senza creare dipendenza, o alimentare paternalismo. È una tragica farsa quella che vede come vittime di uno sgombero proprio chi doveva essere garantito da un progetto costato milioni di euro, di cui non si sa quasi nulla, ma solo e soprattutto ciò che non ha fatto, i bisogni ai quali non ha risposto, la frustrazione che ha generato.

Ho letto che il Presidente della Cassa di Depostiti e Prestiti è spesso fotografato accanto a donne famose: il fascino, l’eleganza, quel profumo che banchieri e amministratori delegati spandono intorno a sé nel loro vertiginoso circolare fra cariche prestigiose e incarichi remunerati oltre ogni accettabile limite. Ma questo non sorprende: il senso di giustizia, la definizione di onestà, non sono gli stessi per chi domina e chi è dominato (Veena Das). Certo, non può essere più lontana la loro silhouette dai corpi che continuano a passare in questa caserma, o negli altri edifici dimenticati di questa e altre città. E dalle voci che non cessano di gridare: non accettando che siano gli altri, solo e sempre gli altri, a definire come deve essere una “città possibile”.
Se ne avessero la possibilità, questi uomini e queste donne saprebbero disegnarla anche loro una città possibile, pensare i suoi spazi, inventarvi la vita: il vero lavoro sarebbe allora quello di curare le nostre paure, e lottare contro la violenza che incombe su tutti, noi come loro.

Le famiglie rom e romene che ho visto sgomberare non hanno pretese irragionevoli, non vogliono ignorare i vincoli di un mondo complicato.
Hanno soltanto la strana maledizione di rivelarne per intero le ipocrisie, di ricordarne con la loro stessa esistenza le contraddizioni: quella di uno sgombero che sopraggiunge solo quando arrivano loro, dopo mesi di silenzio nei confronti di altri e più docili occupanti; quella di un’idea razzista di “cittadino”, che espelle più di quanto accolga.

Vedere la stanchezza di donne e uomini costretti a lasciare ancora una volta il luogo dove per un momento si erano illusi di poter riposare, gli sguardi impotenti dietro sedie di plastica, armadi e coperte nuovamente in viaggio sui loro furgoni, fa male, e accende la rabbia.

R.B.

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