Storia
L’Associazione Frantz Fanon (AFF), fondata a Torino nel 1997, riunisce professionisti con diversa formazione (psicologi, psichiatri, mediatori culturali, educatori, antropologi culturali) accomunati dall’interesse per i temi della salute, della migrazione e della cultura e impegnati nello sviluppo di interventi clinici nel campo della salute mentale dei migranti.
Il nostro gruppo di lavoro prende il nome dallo psichiatra martinicano che, nelle sue opere e nella sua pratica clinica, aveva interrogato non solo la relazione fra cultura, psicopatologia e cura ma anche il complesso rapporto fra società europee e africane all’interno delle dinamiche di violenza proprie della situazione coloniale. Aver scelto il suo nome ha significato voler situare sia la ricerca sia la nostra pratica clinica in un quadro teorico che riconosca la centralità delle culture di appartenenza, ma anche l’importanza dei contesti storici, sociali ed economici: un impegno preciso, dunque, nel considerare il ruolo e gli effetti dei particolari rapporti di forza che sempre sottendono quelli di senso.
L’attenzione a queste diverse dimensioni permette una più profonda comprensione ed una più efficace cura della sofferenza dell’Altro, favorendo anche una riflessione critica sull’organizzazione delle istituzioni sanitarie occidentali, sugli assunti teorici dei nostri saperi e i fondamenti delle nostre pratiche di cura. In questi anni l’Associazione ha promosso un dibattito sulle politiche della differenza culturale e le strategie di intervento adottate da istituzioni quali la scuola, il carcere, le comunità di accoglienza per cittadini stranieri e i servizi psichiatrici, allo scopo di incoraggiare una maggiore consapevolezza dei presupposti impliciti che stanno alla base delle azioni e delle scelte teoriche delle diverse figure professionali.
Il Centro Frantz Fanon
Testo di approfondimento sul Centro Frantz Fanon.
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A proposito di Frantz Fanon

Vita e opere
Fanon nasce in Martinica, colonia francese, il 20 luglio 1925 da una famiglia borghese. Frequenta il liceo dove suo professore è Aimé Césaire (1913-2008), il celebre poeta di Cahier d’un retour au pays natal e del Discours sur le colonialisme, protagonista del movimento della négritude.
Dopo aver preso parte alla seconda guerra mondiale combattendo con la Resistenza britannica prima, con quella francese poi, si iscrive alla facoltà di medicina, a Lione, dove si laurea nel ‘51. L’anno successivo inizia a lavorare come psichiatra, prima a Saint-Alban – dove Francisco Tosquelles, psichiatra catalano, sperimentava le prime forme di deistituzionalizzazione (suo il modello della “psicoterapia istituzionale”) – poi, dopo il trasferimento in Algeria, nell’ospedale psichiatrico di Blida. Qui può osservare direttamente le drammatiche conseguenze dell’oppressione coloniale e gli effetti delle torture praticate dalle forze francesi sui militanti del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN).
Dopo tre anni si dimette, dichiarando l’impossibilità di conciliare gli scopi terapeutici della sua professione con il ruolo sociale e politico che, come dipendente dell’amministrazione coloniale, si trova a ricoprire. Con questo gesto Fanon inizia a confrontarsi direttamente con quella che avverte come un’urgente necessità di agire, impegnandosi in prima persona nella lotta anticoloniale. Nel ‘56, quando la repressione coloniale in Algeria si fa particolarmente violenta, entra nel Fronte di Liberazione Nazionale partecipando attivamente alla lotta. Questa scelta gli costa l’espulsione dal paese da parte delle autorità francesi ma non ne ferma l’impegno politico e di formazione all’interno del contesto bellico. Si stabilisce poi a Tunisi dove inizia un’intensa attività diplomatica e politica. Membro della redazione dell’organo di stampa del FLN, “El Moudjahid”. È ambasciatore del Governo Provvisorio della Repubblica Algerina (GPRA) in Ghana, svolgendo importanti missioni in alcuni stati africani, conoscendo i protagonisti delle lotte anticoloniali di quegli anni. Sfuggito ad alcuni attentati, muore di leucemia a soli 36 anni, il 6 dicembre del 1961, a Washington. Viene sepolto nel cimitero Chouhada, a Tunisi, pochi mesi prima della proclamazione dell’indipendenza.
Divenuto famoso negli anni ’60 come teorico dei movimenti di liberazione, Frantz Fanon è stato un attento studioso dei meccanismi di alienazione mentale e culturale caratteristici della “situazione coloniale” (Balandier). Cresciuto all’interno degli ideali illuministici e universalistici della cultura francese, egli ne vive in prima persona le contraddizioni e le ipocrisie offrendo nelle sue pagine intuizioni illuminanti oggi puntualmente riprese dai postcolonial studies e dai subaltern studies (Said, Gilroy, Guha, Bhabha, Mbembe, ecc.). L’analisi corrosiva che egli conduce di alcune opere letterarie dell’epoca e la critica di taluni celebri lavori psichiatrici e psicoanalitici (di John Colin C. Carothers e Octave Mannoni, in particolare), lo colloca fra i più acuti pionieri di questa corrente di studi. I suoi sforzi, ispirati dalla psicoanalisi, dalla fenomenologia, dal marxismo, non risparmia nessuno, né le borghesie nazionali che affiorano all’alba delle indipendenze nazionali, né gli intellettuali europei che pure si impegnano nella causa anticoloniale: «Perché scrivere questo libro? Nessuno me ne aveva pregato, tanto meno coloro ai quali si rivolge. Allora? Allora, serenamente, rispondo che ci sono troppi imbecilli su questa terra. E poiché lo dico, si tratta di dimostrarlo» (Fanon, Peau noire, masques blancs, 1952, Seuil). I suoi scritti scrutano le zone grigie del contesto coloniale, le ambivalenze dei colonizzati (i cosiddetti fantasmi di “lattificazione” fra i neri), il duplice narcisismo dei bianchi come dei neri (ciò che lo condurrà a prendere le distanze dal movimento della négritude), la riproduzione degli stereotipi razzisti nei luoghi stessi della cura e in quei saperi (la medicina e la psichiatria, in primo luogo) che non celano la loro complicità con il dominio coloniale, persino nei suoi aspetti più brutali (Fanon denuncia il ruolo dei medici nel corso delle torture). Fra i temi centrali del suo pensiero sta quello del “riconoscimento”, e la necessità di non essere schiacciati dal peso del passato: «L’analisi delle categorie psichiatriche di volta in volta coniate per classificare, diagnosticare e definire l’Altro culturale non ha però solo un interesse storico: occorre esplorarne la genealogia e gli effetti di lunga durata (il paradigma primitivistico, ad esempio) anche per comprendere le radici dei contemporanei conflitti epistemologici e le controversie che percorrono l’etnopsichiatria contemporanea. Nell’aprire questo nuovo orizzonte, epistemologicamente più accurato e politicamente più sensibile, l’opera di Frantz Fanon rappresenta un passaggio decisivo: con lui, e nelle opere che di là a poco saranno pubblicate in diversi paesi, si possono riconoscere (accanto alla critica della psichiatria coloniale) le origini di una etnopsichiatria autenticamente autoriflessiva (rivolta cioè a considerare non solo i modelli di malattia e di cura in altre società, o l’influenza della cultura sul comportamento, ma le categorie della psichiatria occidentale, l’ideologia che nutre i suoi modelli e le sue pratiche). Una psichiatria in grado di liberare l’uomo, capace di farlo sentire a proprio agio nel suo ambiente di vita, come scriveva Fanon, non poteva però essere realizzata in un contesto caratterizzato dalla violenza, dalla tortura, dall’alienazione, dentro una situazione come quella coloniale che proprio l’umanità dei colonizzati voleva negare. La scelta di Fanon parla di questa impossibilità» (Beneduce, Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra Storia, dominio e cultura, 2007, Carocci, Roma).