Il titolo di questa nota rinvia, come in un rebus, ai libri di due filosofi che sull’umanismo e il brodo umanitario hanno scritto, in tempi diversi, pagine memorabili.
Dal titolo del primo (di Sartre), prendo a prestito l’emozione suscitata dall’apprendere quanto accade in RAI 1, relativamente a un programma concernente la condizione dei profughi e dei rifugiati in alcuni paesi, e che solo grazie all’iniziativa di un giovane e attento osservatore della vita (della morte?) sociale contemporanea, Andrea Casale, mi è stato possibile apprendere. Mi sarebbe sfuggito, lo confesso, tante le nefandezze di questo tempo inquieto e le chiacchiere che coprono come un fumo asfissiante i problemi reali. Grazie a te, Andrea!
Dal titolo del secondo (di Žižek), riprendo invece l’analisi quanto mai preziosa per comprendere la deriva del mercato umanitario, che, come un’ombra, corre oggi sotto le ali dei droni, dopo aver accompagnato le guerre bugiarde sulle armi chimiche in Irak.
I rifugiati che vivono nei campi profughi di Quetta hanno scritta, sui loro corpi, la violenza e la minaccia che scandiscono l’esistenza quotidiana nei loro paesi, ma parlano anche – a condizione di saperli ascoltare – della morte ingiusta e della miseria che l’Occidente ha loro regalato in questi anni, mentre la crescita logaritmica della produzione di oppio nell’area “controllata” dalle forze NATO in Afghanistan parla di un’altra ipocrisia.
Come se non bastasse, l’industria umanitaria invade alla velocità di un tumore maligno aree come la cooperazione allo sviluppo. Riecheggia il ritornello di qualche anno fa: “niente più soldi per lo sviluppo, ora solo emergenza” e a centinaia i nostri soldatini-cooperanti si trasformarono in esperti dell’emergenza, del trauma, mentre sempre più s’ingrossavano le fila del peace-buiding e degli psicologi esperti di assistenza umanitaria, con la loro cornucopia di buoni consigli e di tecniche. Li vedo scendere dagli aerei e dagli elicotteri con i loro preziosi rimedi offerti, senza molte differenze, a chi vive soffocato dall’immondizia o è sopravvissuto a un terremoto, a chi è stata stuprata e a chi ha subito torture.
Poi venne un’altra guerra, quella in Libia, condotta contro un ex-alleato al quale si era baciata la mano, combattuta come di consueto ignorando le regole della scacchiera sulla quale ci si era messi a giocare. L’inferno del Mali, il conflitto in Libia, sono sotto i nostri occhi a ricordarci i pezzi rimasti, le conseguenze e, ad uno stesso tempo, la posta in gioco dell’ennesima guerra umanitaria (il controllo delle risorse minerarie ed energetiche). E giunse, prevedibile, un altro fiume di profughi e di rifugiati, con il decreto sull’Emergenza Nord-Africa (ENA).
Dichiarata “cessata” con un altro decreto, l’ENA costituisce oggi la migliore espressione di forme di intervento che hanno spesso accresciuto tra i rifugiati solo la confusione e la frustrazione.
Sullo sfondo, il fenomeno ben noto del mercato umanitario e di quella che gli studiosi hanno definito NGOization.
Ecco, allora, che giunge una notizia che ha dell’incredibile, e che Andrea Casale ha fatto conoscere per tempo: un programma televisivo s’incaricherebbe di mostrare, dentro un progetto di “social TV”, la condizione di vita dei rifugiati nei campi profughi. Per farlo si affida a “personaggi popolari familiari al pubblico di RAI 1”: comunicato dell’UNHCR del 4 settembre 2013). Chi sono i personaggi “popolari familiari al pubblico” è facile immaginare: Al Bano, Barale, Cucuzza, Emanuele Filiberto di Savoia e tanti altri.
Dunque non un reality, ma soltanto una “social TV”, con l’idea di “evitare un linguaggio tecnico”. Laurens Jolles (UNHCR) prova a rassicurarci con questa sua dichiarazione, a farci capire che si vuole solo “dare-voce-ai-rifugiati”. Noi abbiamo in mente però un’idea ben diversa di che cosa sia “dare-voce-ai-rifugiati”.
Parlare senza ricorrere a un “linguaggio tecnico” è d’altronde possibile, ed è cosa che giornalisti professionisti fanno quotidianamente. Viceversa, affidarsi a voci e occhi da show televisivo, significa solo offrire brodo umanitario.
L’ideatore del programma, Tullio Camiglieri, pensa che per far giungere “il messaggio” sul dramma dei rifugiati siano più efficaci le facce di Sanremo o di un nobile rampollo reale che non quelle, invero meno attraenti, di qualche giornalista che sappia condurre inchieste e spiegare, o di chi – lavorando ogni giorno accanto a queste donne e a questi uomini – ne conosce gli incubi.
I volti selezionati fra i personaggi che hanno accettato i rischi connessi a questa coraggiosa operazione (avranno dovuto fare ulteriori assicurazioni per le loro gambe o i loro seni?) promettono di rendere più degne d’interesse vite misere come quelle di profughi che fuggono la guerra, la miseria o gli stupri. Spandendo una carezza, prendendo un bambino fra le braccia, accompagnando con un sorriso il segno di vittoria col pollice verso l’alto, il grande pubblico finalmente capirà, e rifletterà… La consapevolezza prodotta, ne siamo certi, durerà a lungo (il tempo di un “sms solidale”?), e finalmente si sarà compresa qual è l’esistenza dei profughi.
Reality show, social TV, fiction, o semplicemente ipnotica fuga e visione addomesticata: questo rischia di essere The Mission. E qui non entro nel merito dei costi probabilmente sostenuti per la sua realizzazione (400.000 euro per puntata, più i costi di produzione, più 700 euro al giorno per i membri del cast, più…). È altro ciò che mi rende inquieto. Chi è stato in quei luoghi, chi conosce i tormenti dei richiedenti asilo, fa davvero fatica a immaginare le storie delle donne di Goma o di Mberra, di uomini o bambini non diversi da quelli che hanno perso tutto attraversando il Mediterraneo, raccontate da cantanti, showgirl e conduttori televisivi. La questione sta proprio qui: come raccontare le loro vite, come mostrare le immagini della loro sofferenza, perché non si riduca tutto ad una intollerabile farsa (“Prima la tragedia, poi la farsa”, scrive Slavoj Žižek).
L’assurdo trasuda dai comunicati, e non penso ai compensi (veri o falsi) dei vip che vi hanno partecipato, o a quelli (reali o immaginari) dei membri degli organismi internazionali (un amico eritreo sosteneva che il salario mensile di un esperto delle Nazioni Unite avrebbe nutrito fra le 100 e le 150 famiglie nel suo paese: non so se fosse nel giusto, ma nessun argomento sulla professionalità degli esperti o i rischi cui essi vanno incontro nel loro lavoro riesce a farmi dimenticare quel calcolo).
È l’idea stessa di queste azioni, la loro ideologia, che impone una riflessione, e suggerisce oscure analogie.
Lo spettacolo televisivo continua, di fatto, a proporci in forme appena dissimulate un vecchio topos: un villaggio sperduto, un’isola (poco importa se reale, o semplicemente un’isola di miseria e di disperazione), dove l’Occidente approda con il suo bagaglio di civiltà e di umanità, di gioia e di curiosità, pronto come sempre a lenire e curare (a colonizzare) la barbarie e la miseria che incontra. In questo non siamo molto originali. Salvo poi negare il visto a chi cerca di venire a casa nostra, o lasciarli bastonare a morte lungo le frontiere elettrificate di Ceuta e Melilla. Chissà perché non hanno inviato anche lì gli esperti di cronaca rosa e veline presenti in questo splendido cast…
Programmi del genere sembrano ormai diffondersi a macchia d’olio, ovunque, una vera epidemia. Dovremmo chiederci il perché. In Olanda la TV manda attori e modelle in un villaggio africano (The Kamaras love you); quella australiana spedisce sei comuni mortali (Go Back to Where You Came From), poi in una successiva serie sei stelle dello spettacolo, a sperimentare i pericoli e i rischi di luoghi fra i più violenti del mondo (quasi che solo attraverso i corpi e le voci delle star sia diventato possibile avvicinarsi a questo altro mondo, per poi prenderne distanza quando annoiati); quella israeliana non è da meno: per far rilassare i suoi spettatori e distrarli dal piombo fuso spedito a Gaza, li diverte con le avventure di cinque famiglie di coloni che montano le tende nel deserto dove per un mese dovranno sopravvivere… a loro stessi (The Village).
Crusoe ha trovato i suoi nipotini.
Insomma, non è soltanto la violenza cieca delle guerre “umanitarie” ma la retorica che scandisce il trattamento riservato alle vittime dei conflitti e dell’incertezza a imporre oggi un’analisi severa: “Sostieni i Rifugiati, diventa un Angelo”, proclama l’UNHCR (senza dimenticare i più piccini: “Gioca a Way 2 Escape, scoprirai i pericoli che deve affrontare un cittadino in fuga…”); “Scopri come puoi salvare la vita di un bambino”, rincara l’UNICEF, “Routine is fantastic”, insiste l’UNHCR… Circondati dal brusio di una competizione umanitaria, inseguiti da “dialogatori” che usano “le loro doti per raccogliere donazioni e aderire al programma Angelo dei Rifugiati”, dalle “bomboniere solidali” di Save the Children, o dai kit di questa o quella Ong, un’altra giornata volge al termine. Le immagini della Siria sostituiscono quelle del Darfur, della Libia o del Congo, mentre una formula sussurrata a bassa voce, “fundraising”, ci accompagna a letto …Sono queste le (enigmatiche) forme del dono nelle società contemporanee? Il mio rinvio a Godelier vuole qui solo prendere un po’ di distanza, per non soccombere.
Se non fosse tutto così tremendamente vero, si potrebbe pensare infatti a uno scherzo di cattivo gusto. La zona grigia, la banalità del male, l’odore marcio che sale dal discorso umanitario… Ecco da dove mi arrivava quel forte senso di nausea.
Nessuno dimentica che i bambini hanno bisogno di coperte e di giochi, che gli stomaci devono essere riempiti, che occorre un riparo dalla pioggia e medicine per chi non ne può comprare (sebbene si dimentichi di dire che questo non accade solo ai rifugiati). Ma che il sacrosanto dovere di aiutare, di intervenire, continui a nascondere ipocrisie e sprechi, che ci si rassegni al fatto che siano le organizzazioni umanitarie a gestire i disastri decisi da governanti, diventa sempre più intollerabile, soprattutto per coloro che lavorano differentemente in questo territorio.
Da Roma abbiamo ricevuto una telefonata da parte dell’UNHCR. Impegnato in una riunione, non ho risposto subito, ho poi richiamato e parlato a lungo al telefono. La rappresentante dell’UNHCR è stata disponibile ad ascoltare le mie perplessità, a lasciarsi illustrare le perplessità di tanti, ed ha accolto l’idea di partecipare ad un incontro che abbiamo intenzione di promuovere nella nostra Università sull’industria umanitaria e la condizione dei rifugiati. Ho apprezzato molto la sua disponibilità.
Da parte sua mi ha esposto le ragioni che hanno sostenuto l’idea di realizzare The Mission, l’importanza di raggiungere “il grande pubblico” in prima serata, difendendo le modalità con le quali sono state attuate le riprese e ottenuto dai governi regolari autorizzazioni. Mi ha però soprattutto ripetuto più volte: “Prima vedete, poi giudicate”.
Ha ragione: non si può esprimere un’opinione sulla base di comunicati che girano spesso senza adeguato controllo. Non è ammissibile che una critica si fondi solo su informazioni di seconda mano (anche se talvolta l’assurdità di un progetto è tale che la sua realizzazione concreta conta poco: la prima basta a motivare con forza il dissenso).
Ho però accolto il suo invito. Sto riflettendo, leggendo e aspettando di vedere il programma. Intanto mi è capitato di guardare l’anteprima: 2 minuti e 39 secondi. Nelle scene, incomplete e incapaci di dare il senso dell’intero programma, si vede la signora Barale che usa un mortaio per preparare da mangiare, ma si affatica dopo qualche colpo, e poi Emanuele Filiberto di Savoia che, con un caschetto da manovale, usa il nobile attrezzo della cazzuola in un villaggio congolese dove stanno riabilitando una scuola. Aspettiamo, un’anteprima non è l’intero programma, ma queste poche immagini danno molto da pensare.
Prima di ripetere il solito anatema (“pornografia umanitaria!”) voglio attendere ancora, testardamente: giudicheremo solo dopo aver visto l’intero programma. Intanto, dopo aver avuto l’occasione di guardare l’anteprima, suggerisco agli spettatori di avere a portata di mano antiemetici, il rischio di macchiare divani e tappeti di casa vostra è alto.
Vien voglia di dire: che lo spettacolo rimanga dov’è, continui pure a far commuovere un “grande pubblico” sempre più ammaestrato, ma non osi sfiorare le questioni serie, il dolore autentico, non osi avvicinarsi là dove si giocano, fra inganni e violenze, i destini di tante donne e tanti uomini. Il fine non giustifica i mezzi.
Roberto Beneduce – Associazione Frantz Fanon