Sui morti a Lampedusa

Morire cercando la vita. Questa l’idea più dolorosa che sorge di fronte alle scene dell’ennesima e annunciata tragedia di Lampedusa. Abbandonando ogni “prudenza”, cercando con ostinazione l’umano, queste donne e questi uomini avevano fuggito l’odio, e dimenticato che l’ipocrisia può essere persino più letale. Gli spettatori del naufragio, al sicuro, ancora una volta osservano, enumerano, promettono.
Per questo disturba ascoltare l’unanime commozione di queste ore. Lo striptease del nostro umanismo, scriveva Sartre cinquant’anni fa… Quanti corpi ancora, accasciati su una spiaggia, o per sempre perduti nel Mediterraneo o nel Sahara, dovremo osservare prima di riconoscere che quelle donne e quegli uomini non sono stati uccisi dalle onde o dalla sete ma dalle leggi sulla migrazione?
Quante menzogne dovremo ancora tollerare prima di sentirli ammettere che è la nostra “legalità” ad alimentare un’economia di morte che nei passeurs, negli scafisti ha solo il prestanome per ministri, legislatori e governanti?
Vivere in un paese dove il razzismo trova le sue più rozze espressioni nelle fauci di questo o quel senatore, accresce ancor più l’amarezza e la rabbia, soprattutto in chi, come noi, ogni giorno ascolta il dolore e la confusione di tanti immigrati. 
Perseguitati, trattenuti in ghetti o prigioni, dimenticati da una burocrazia indifferente, essi si chiedono perché il diritto dei deboli, dei giusti, debba ancora attendere. 
Un sistema di leggi inique, in Europa, ma non solo, trasforma gli immigrati senza permesso di soggiorno in criminali, in “infiltrati” (così recita una legge del 1954, la “Prevention Infiltration Law” che, in Israele, consente di deportare, o trattenere nei centri di detenzione senza limiti di tempo, gli stranieri privi di documenti).
È bene ricordarlo: questa economia di morte, che ossessiona la difesa dei confini nazionali e dei privelegi di pochi, nutre un’economia dell’emergenza e della coercizione, e viceversa ne viene alimentata.
Questa stessa economia di morte giunge a punire persino chi soccorre e protegge i clandestini. Una legge provò del resto, solo qualche anno fa, a imporre l’obbligo di denunciare alle autorità giudiziarie i cittadini stranieri senza permesso di soggiorno: a imporne l’obbligo pure a chi aveva come unico dovere solo quello della cura… Quando una legge è ingiusta, disumana, razzista, noi disobbediamo: intendiamo essere “complici” di questi clandestini. I morti di Lampedusa ce lo impongono.
Ora chiedono silenzio. Lo ingiungono a chi osa fingere commozione. Noi rimaniamo, come sempre, accanto a loro, accanto a questi corpi perduti, morti di una guerra condotta contro un nemico inesistente, uccisi da armi invisibili (circolari, decreti, commissioni). 
È il momento di abrogare immediatamente una legge perversa, in Italia e in Europa. Quella nuova non dovrà avere il nome di nessuno. Ne ha già troppi: i nomi di tutti coloro che sono morti cercando la vita. Siamo vicini agli abitanti di Lampedusa e al coraggio del suo sindaco Giusi Nicolini, al loro restare umani. Siamo vicini al muto ripiegarsi dei sopravvissuti. La cura del presente, delle loro (e delle nostre) incertezze, è anche la necessità di curare questi morti. Lo dobbiamo a coloro che li hanno perduti.

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