La disperazione dei giovani di Piazza Palestina

“Le nostre vite si sono interrotte. Non riusciamo a vedere altro che un genocidio, che ha preso il posto dei nostri sogni”.

Dal 19 Maggio 2025 alcuni studenti di un corso di laurea in comunicazione hanno deciso di sedersi in piazza Castello (Torino) e non si sono più alzati. È nato così un presidio permanente e non violento per la Palestina, a cui diversi altri volontari si sono uniti. Con la loro enorme bandiera, le tende, le mille scritte e vari eventi artistici, hanno cercato di parlare al mondo per smuovere le coscienze: la loro costante presenza ricorda, notte e giorno, che c’è ancora un lume di umanità acceso; che c’è ancora qualcuno che resiste all’obbrobrio.

All’inizio al presidio si respirava un’atmosfera di coraggio e speranza. Con alcuni genitori abbiamo organizzato momenti di lettura di fiabe sul tema della guerra con le nostre figlie e i nostri figli. È così che ci siamo conosciuti.

Ora l’atmosfera è cambiata. Di fronte all’inazione dei nostri governi, ma anche della città che sta loro intorno, con il suo carico di indifferenza; guardando alla distruzione di Gaza, sommersi dalle immagini atroci e dalle voci afflitte delle persone con cui sono in contatto tramite Instagram, queste giovani e questi giovani vacillano: c’è chi si sveglia nel cuore della notte per leggere le parole di famiglie gazawi che chiedono aiuto, dichiarando di non farcela più, di essere sull’orlo della disperazione per ciò che sta succedendo.

Ad animare ininterrottamente il presidio sono circa otto persone. Uno fra gli attivisti più attivi e sensibili, ci racconta che da quando è iniziato il presidio è come se la sua vita si fosse per certi versi interrotta. Racconta di un’immagine in particolare. Quella che l’ha dissociato dal mondo occidentale. Un’immagine che ritorna, che si sovrappone a tutto, come un’ossessione sacra che gli ha aperto gli occhi e che pretende di venerare. “Un bambino incastrato sotto le macerie con la bocca impastata di polvere e sangue. E negli occhi sbarrati, l’ultimo sguardo bloccato nell’orrore.” Nel suo mondo fatto di immagini, nel suo sogno da regista, quella del bambino è diventata un carburante infinito che lo spinge a battersi nella speranza di un mondo migliore, senza tregua. Perché ogni volta che si ferma, ogni volta che rallenta, quello sguardo diventa sempre più nitido. “Solo quando ci sarà un punto a questa atrocità” – dice – “potrò chiudere gli occhi a quell’anima e disegnare sul suo volto quel sorriso che merita.” Non c’è più tempo per parlare con la sua famiglia, per guardare un film la sera, per uscire con gli amici. Si va a dormire tardi, per fare la guardia. Ci si alza all’alba, per controllare le notizie, leggere articoli sulla guerra, e chiedersi, ogni giorno, cosa si può fare per rompere il muro dell’indifferenza. “E’ una sensazione che ti lacera la testa dall’interno”, spiega una giovane del gruppo. “Fisicamente non ti stanno nel cervello tutte le cose che ti proponi di fare, e crolli psicologicamente, scleri, impotente” di fronte alle immagini dei bimbi che vengono fatti lentamente morire di fame. “Parlare non funziona, l’arte non funziona, viene voglia di fare delle azioni di cui potresti pentirti… tipo contro te stesso”. Fra gli attivisti non è raro sentir parlare di forme di “suicidio collettivo”: se solo si lasciasse il gas aperto o se si prendesse una moto, via, dritti fino a Gaza o al punto più vicino in cui si possa arrivare … Quando ne parlano sono seri. Sono idee per davvero.

Il presidio diventa al contempo una forma di supporto e una trappola. Se qualcuno suggerisce di sospendere momentaneamente – in una città ad agosto deserta – altri insistono che quello spazio è l’unico simbolo che dice che c’è una rete di persone, che non si è soli. È “l’unica forma di sostegno psicologico che ti rimanda il fatto che stai facendo qualcosa, per cui per non crollare, continui a combattere”. E ti ritrovi “schiavo” dentro un meccanismo di indifferenza e di un mondo che guarda dall’altra parte.

È troppo. Se dovessi svolgere la pratica di medico e psicoterapeuta per come mi è stata insegnata – negli anni dell’università, prima, e della scuola di specializzazione, dopo – sarei tentato di comprendere le parole dette da questi giovani dentro quadri psicopatologici già esistenti nei manuali diagnostici; l’esperienza al Centro Frantz Fanon di Torino mi porta invece in un’altra direzione. Le forme di panico morale che ho incontrato in questi mesi al presidio sono la reazione che ci si può attendere da persone che non si vogliono distaccate dal mondo in cui vivono e che interagiscono con un ambiente divenuto invivibile. Siamo dunque noi che dobbiamo tenere insieme lo psichico e il politico, l’individuale e il sociale se vogliamo comprendere di cosa soffrono questi giovani.

Noi tutti siamo oggi testimoni diretti di genocidi un tempo nascosti, ignorati o negati. In quest’ottica, non stanno forse questi ragazzi stanno portando sulle loro spalle il peso che la maggior parte degli “adulti” ha deciso, in fondo, di non portare? La loro disperazione e le loro lacrime, non sono forse quelle che noi non riusciamo a versare? Soffrono certamente di fronte all’impotenza che ci rimandano le immagini dello sterminio e della denutrizione, ma non è piuttosto la solitudine causata dal mondo indifferente intorno a loro che li sta portando alla disperazione? Quel mondo che al momento sta facendo le valige per il mare?

Li abbiamo abbandonati e così facendo abbiamo forse abbandonato noi stessi, come è successo ai ragazzi di Fridays For Future o a chi manifestava per la pace in Ucraina. Se dovessi da medico fare una diagnosi sarebbe allora questa: “disturbo da stress acuto da genocidio e ignavia del mondo intero”.[1] Prescrizione terapeutica: mobilitazione sociale di tutte le generazioni in sostegno di Gaza. Indicazione a tutti i media (radio, giornali, televisioni): dar voce alle ragazze e ai ragazzi di Piazza Palestina.

Esiste un modo per rispondere al grande sentimento di impotenza e solitudine che i giovani vivono di fronte ai disastri del presente: stringersi tutti insieme “in social catena”,[2] dare voce e gambe a quel “grido in cerca di una bocca” di cui parlava Gaber[3] già molti anni fa: agire ora. Non è mai troppo tardi.

Concludo quindi con le parole dei ragazzi di Piazza Palestina e con un appello alla mobilitazione.

“La causa palestinese, in questo contesto, rappresenta […] un’occasione per riportare al centro dell’agire umano il sogno di un mondo disarmato, in cui la guerra non sia più giustificabile, concepibile, né culturalmente accettabile. Un mondo in cui la pace non sia più un’utopia, ma una condizione permanente della convivenza umana.”

Chiunque, prima o dopo le vacanze, voglia dare una mano (anche un’ora al giorno o al mese), può compilare il seguente form.

Jean-Louis Aillon
Medico e psicoterapeuta adleriano – Associazione Frantz Fanon
Docente in Etnopsichiatria presso Università degli Studi di Torino


[1] Da un punto di vista clinico si potrebbe parlare di “genocidio in diretta”. Se il dispositivo genocidario ripete il suo progetto di eliminazione con le stesse tecniche utilizzate in passato in situazioni analoghe (eliminazione fisica, fame, mancanza di acqua potabile e di altre risorse vitali, violenza sessuale, ecc.), oggi la fondamentale differenza consiste nell’accessibilità alle informazioni in tempo reale, che espone le persone che assistono indirettamente agli orrori a esperienze traumatiche vicarianti.

[2] Giacomo Leopardi (1845), La Ginestra o il fiore del deserto, in: Canti, Ranieri: Firenze.

[3] Giorgio Gaber (1998), Il grido, CD: Un’idiozia conquistata a fatica.

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