Cronaca degli anni di brace: Mission, Lampedusa e Messina

Lettera aperta su emergenza immigrazione e ateneo di Messina

Firma l’appello dei colleghi!

Simona Taliani, 12 gennaio 2014 
Associazione Frantz Fanon.

Forse qualcuno troverà l’intreccio di riflessioni che stiamo per proporre fuori luogo, fuori contesto. Uno scandalo. Non ci possiamo fare nulla.

Lo scandalo sta infatti fuori, nel mondo, nella scissione a cui la quotidianità che viviamo ci obbliga, scavando in questo mondo libero punto ciechi, veri e propri passaggi di non-ritorno. Perché da certe ‘scene’ non si può tornare integri.
La verità è che la nostra società, nella sua essenza, produce follia, disordine, sofferenza. In eccedenza e per tutti. L’alienazione ne è il prodotto più evidente. Serve uno sforzo di vigilanza smisurato per non cedere alla tentazione di lasciarsi andare. Di lasciar tutto andare.
Solo un pazzo potrebbe risvegliarci dal torpore. Un nuovo Milhoud (controfigura profetica del regista algerino Mohammed Lakhdar-Hamina in Chronique des années de braise, 1975), col suo urlo: “Sveglia, città, sveglia”.

Abbiamo visto a Lampedusa, subito primo di Natale, snodarsi inquietanti catene di montaggio umane: lugubri ‘corridoi umanitari’ (non certo quelli che Giusy Nicolini auspicava e richiedeva a gran voce subito dopo il primo maledetto naufragio del 3 ottobre).
Si muovevano allora (e non possiamo escludere ancora oggi, forse non lì ma altrove) passivi e rassegnati i corpi da spogliare e disinfettare, da vaccinare e sterilizzare contro malattie che non è detto che i naufraghi avessero prima di arrivare, ma che certamente rischiano di prendere nei luoghi di vita che si offrono loro (campi di ‘concentramento’, nel senso letterale del termine: massa umana ammassata). Accanto, in punti precisi della catena, i sorveglianti: inservienti burocrati che meccanicamente compilano cartelle, inseriscono crocette, buttano via panni sporchi, infilano guanti. Meccanicamente come se fosse la procedura più naturale del mondo. Non un tentennamento, non un’incertezza, non una smorfia di dolore.

Da quale incubo ci risvegliamo? Quale tormenta onirica stiamo attraversando, senza riuscire per intero a coglierne le conseguenze, storditi e attoniti? E’ successo veramente?
Noi non ne abbiamo mai dubitato. E per questo lo abbiamo denunciato prima che l’immagine diventasse prova evidente.

Grandi imprese dell’umanitario, assunti i connotati e i nomi seducenti tipici delle ‘cooperative sociali’ (Com’era? … Lampedusa Solidarietà), hanno inneggiato alla solidarietà, per ricavare il massimo del guadagno. Succede ovunque.
La nostra storia è anche questa.

La storia del Centro Frantz Fanon, un anno fa, ha avuto a che fare con questo dispositivo istituzionale, di legittimizzazione delle competenze sulla carta di realtà associative di carta: nate negli uffici, dentro stanze chiuse, asfittiche e asfissianti (ma tracotanti tanta è la certezza di ‘già vincere’ la gara, l’appalto, il lotto).
Ora – come nella migliore tradizione – si vuole attribuire responsabilità a questo o quell’operatore, e i dirigenti vogliono per loro un salvacondotto (non sapevano, si affrettano a dire; cambieranno operatori; cambieremo cooperativa …).

Ma torniamo al mese di dicembre 2013.
Non erano ancora scemate le critiche (alcune del tutto condivisibili) e le difese a oltranza (contro ogni decenza) sulla trasmissione televisiva Mission che quest’altra scena ha avuto il sopravvento. Eccolo, lo scandalo che proponiamo. Perché parlare qui ed ora ancora di Mission, mentre stiamo evocando nel silenzio generale le catene di ‘disinfestazione umana’ di Lampedusa?

Perché sono queste altre scene – Lampedusa, con la sua catena di montaggio umanitaria; Messina, con la complicità di istituzioni pubbliche deputate alla trasmissione del sapere e alla costituzione di cittadini (si legga la lettera che qui alleghiamo dei colleghi messinesi) – a rivelarci per intero qual è l’essenza dell’accoglienza umanitaria oggi. Perché ora è evidente, a tutti, quanto Mission sia stata una vera e propria messa in scena di personaggi chiamati a recitare un copione diverso da quello consueto, e i cui esiti grotteschi sono sotto gli occhi di tutti.

Inutile parlare troppo. Le parole vanno risparmiate, usate con misura. Ciò che non ci siamo mai risparmiati di fare è assumerci la responsabilità delle nostre.

Chi lavora o fa ricerca in questi campi abietti che sono i campi d’accoglienza lo sapeva. Era ciò che qualcuno timidamente mormorava nei corridoi. Era ciò che qualcuno urlava, rimettendoci il posto di lavoro. Qualcuno resisteva come poteva. La moltitudine accettava in sordina il suo misero compenso (non che la paga da educatore o da psicologo sia infatti mai stata lauta). Perché sempre – vale la pensa ricordarlo – queste gare d’appalto vengono date al miglior offerente sotto il profilo della proposta economica (si taglia dunque e ampiamente su professionalità e ‘vigilanza’: intese qui, chiaramente, come il restar vigili contro la tentazione di alienazione che contraddistingue questi contesti).

Chi riuscirà a restare vigile e ad uscire da questa lunga notte attento e implacabile nella sua analisi, pronto a ricordare che in questi campi la tentazione di alienarsi e alienare è a portata di mano, pronta per l’uso, ben ingranata nei meccanismi e accettata di buon grado dai burocrati decisori … sarà imprescindibile (come amava dire Bertolt Brecht e ripetere Silvio Rodriguez) .
Ci si dovrebbe auspicare l’esistenza di un terzo settore “scomodo”: recalcitrante, resistente e sempre vigile. Perché, come sosteneva Michel Foucault, c’è più verità nel discorso dell’ultimo dei pazzi che non in quello del primo degli psichiatri. Di questo ne siamo certi.


* Waqā᾽i῾ sanawāt al-ǧamr (Cronaca degli anni di brace), pellicola epica del regista algerino Mohammed Lakhdar-Hamina con cui vinse la Palma d’oro al Festival di Cannes del 1975 (la prima assegnata a un film e a un cineasta del continente africano).

** Hay hombres que luchan un día y son buenos. Hay otros que luchan un año y son mejores. Hay quienes luchan muchos años y son muy buenos. Pero hay los que luchan toda la vida: esos son los imprescindibles.
Bertolt Brecht (Sueño con serpientes, Silvio Rodriguez).


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