Testo inviato a La Stampa il 01.4.2019:
Said Machaouat, 27 anni. Il nome del reo confesso dell’omicidio di un giovane solo di qualche anno più grande di lui, Stefano Leo, parla di una traiettoria tragica quanto cupa: una famiglia immigrata, la morte del padre, il ritorno della madre nel paese d’origine, i corsi di apprendimento, un’occupazione precaria, la relazione da cui nasce un figlio. Poi la crisi, la perdita del lavoro, la solitudine. Sembra il ritratto di un crollo che abbiamo riconosciuto in tante tragedie di questi anni.
Un percorso di dis-integrazione, quello di Said, che fa riflettere su quanto l’integrazione non basta evocarla perché diventi realtà: è un percorso complesso, bisognoso di interventi costanti e intelligenti, che leggi ingiuste o la percezione di essere costantemente scrutati e giudicati, possono rendere scivoloso. Uno studioso ha definito anti-tecnologie di cittadinanza le scelte politiche, sempre più comuni nelle società neo-liberali, che accrescono rischio di queste derive.
Dell’azione di Said è difficile dire per molte ragioni: e la prima è che il dolore per la violenza insensata contro un innocente invita piuttosto al silenzio e al rispetto dei suoi familiari.
Un antropologo o un clinico di buon senso esita d’altronde a parlare quando non conosce in prima persona il responsabile di simili gesti, la sua storia. Preferisce tacere, lasciando questo inutile esercizio agli esperti delle poltrone televisive. Egli sa però che i motivi di questo delitto, dichiarati dal suo autore, non sono “banali”. La verità del fatto giudiziario, foss’anche sostenuta dalla piena corrispondenza fra quanto dichiarato alle forze dell’ordine e gli elementi forniti, le “prove”, non esaurisce mai la verità di un simile gesto.
C’è un “resto” che, come uno spettro, c’interroga, e che il ricorso al registro della follia è lungi dal cancellare. Dare la morte a chi è felice, generare terrore, sono certo intenzioni che suscitano un sentimento di orrore e annientano quella “fiducia nel mondo” che nasce dalla certezza che l’altro rispetterà il mio corpo (Améry). Ma esse ricordano anche quanto sia diventato facile, nelle nostre democrazie, colpire un innocente: poco importa se si tratta di passanti (come accaduto anche a Macerata), di scolari ignari o di naufraghi ai quali rifiutare per forza di legge soccorso, condannandoli a morte certa. Sino a quando governanti sconsiderati nutriranno di odio e sospetto il nostro tempo, non ci si dovrà stupire se gesti di morte come quello di Torino si produrranno sempre più spesso lungo la linea del colore. Solo rimarrà l’effimero sollievo di vedere spuntare, lungo quella stessa linea, qualche eroe.
Nota inviata in data 2.4.2019 con messaggio email ai giornalisti de La Stampa Bottero, Ferrua, Martinengo:
Gentile sig.ra Martinengo, gentili sig.ri Ferrua e Bottero
Perdonate: sono però davvero irritato, e le ragioni per le quali dicevo ieri al telefono a Martinengo che i giornalisti si sentono spesso demiurghi in diritto di deformare artatamente pensiero e parole degli intervistati, è confermato ancora una volta da questa vostra “chirurgia”, invero assai poco estetica. Se io scrivo
“Sino a quando governanti sconsiderati nutriranno di odio e sospetto il nostro tempo, non ci si dovrà stupire se gesti di morte come quello di Torino si produrranno più spesso lungo la linea del colore. “
solo un cieco, un folle o un incompetente si permette di “tradurre” e “sintetizzare” queste mie parole in un titolo come
“Politici che alimentano l’odio producono gesti di morte”
Se non si fa fumo non ci si sente mai abbastanza soddisfatti? Gentile sig.ra Martinengo, è davvero così ingenua (o così incompetente) dal non vedere la differenza fra “producono” e “non ci si dovrà stupire”? Non misura il grado di arbitrio e di offesa che si attua ogni
qualvolta si deformano le parole di un soggetto?
D’altronde, soltanto un imbecille metterebbe in relazione di causalità diretta discorsi e comportamenti come quello di cui è qui questione. Non io, né di sicuro un qualunque antropologo saggio.
Le parole sono piombo, dicevo ieri alla sig.ra Martinengo al telefono, ma è evidente quanto poco vi insegnino a maneggiarle: sembra che spesso non riusciate a fare altro che lanciare sui fatti “piombo fuso”.
Infine: non sono “psichiatra dell’università di Torino” ma “antropologo dell’università di Torino”, e anche questo è un segno rivelatore della superficialità inquietante di un certo operare (se ignorate il mio ruolo istituzionale, dopo che la Sig.ra Martinengo mi ha telefonato ieri 6 volte, mi si poteva anche telefonare una settima volta per chiedermelo). E qui esigo un immediato errata corrige.
Pubblicherò autonomamente il mio testo, aggiungendo la presente nota e precisando che il titolo utilizzato, ancorché posto fra virgolette, non mi appartiene. A voi rimane solo da chiedere scusa.
Roberto Beneduce